Quello che le immagini ci dicono 📸
#20
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Durante le mie formazioni aziendali sul linguaggio inclusivo e accessibile per il web, parlo sempre dell'importanza di una comunicazione visiva che vada di pari passo con la scelta delle parole.
Con le parole che scriviamo possiamo dire tanto, esprimere la nostra visione del mondo, essere parte attiva di un cambiamento sociale.
Ma se poi, quando scrolliamo i motori di ricerca per cercare immagini da associare a quelle parole, ci affidiamo a una rappresentazione da perfetto manuale del cliché, beh, qualcosa non torna.
Sul web è facile cadere nella trappola del cliché.
Qualche esempio al volo?
Sono andata su Google Immagini, ho digitato ‘web designer’ e questi sono alcuni dei risultati che trovo in prima pagina:
Ho cercato ‘mutui per coppie’ e ho visto comparire queste immagini:
La ricerca ‘scuola dell'infanzia bambini’ popola la SERP di foto di bambini in classe, quasi tutti con pelle chiara:
Qualche mese fa, mentre presentavo a un'azienda alcuni siti di foto stock non stereotipate, cioè immagini come queste,...
...una persona del pubblico mi ha risposto: "Bellissime immagini, ma per l'Italia non vanno bene, non sono rappresentative delle persone negli uffici italiani".
Si riferiva in particolare all'eterogeneità etnica delle persone ritratte.
Questa osservazione sul momento mi ha spiazzata, mi sono sentita come quella che non si ricorda più quanto possono essere bianchi gli uffici italiani.
Ma poi lo spirito di Factfulness () è arrivato in mio soccorso: campanello d'allarme, Alice, sei di fronte a un istinto di generalizzazione!
E l'ho affrontato come tale, alimentando il dubbio.
Ho risposto che, anche se quelle immagini non rappresentavano la popolazione attuale del loro ufficio, nulla vietava che potessero essere rappresentative di altri uffici in giro per l'Italia.
O che, in un futuro prossimo, potessero rappresentare la loro popolazione aziendale.
L'istinto a generalizzare
Riprendo pagina 165 di Factfulness (edizione Sceptre del 2019) e te la traduco:
«Factfulness è... riconoscere quando una categoria viene usata come spiegazione generale, e ricordare che le categorie possono essere fuorvianti. Non possiamo smettere di generalizzare, e nemmeno dovremmo. Quello che possiamo fare, invece, è smettere di lanciarci in generalizzazioni scorrette.
Per controllare l'istinto a generalizzare, metti in dubbio le tue categorie.
[...]
• Osserva le differenze tra gruppi diversi. Non dare per scontato che ciò che vale per un gruppo sia valido anche per un altro.
• Fai attenzione al concetto di "maggioranza". Maggioranza significa solo più della metà . Chiediti se, nel caso che stai considerando, la maggioranza corrisponde al 51%, al 99% o a un altro dato intermedio.
• Diffida dei brillanti esempi visivi. Le immagini vivide sono più facili da ricordare, ma potrebbero essere l'eccezione invece che la regola.»
Insomma, equilibrio.
E apertura a scenari diversi da quelli che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
O sarebbe meglio dire "diversi da quelli che pensiamo di avere sotto gli occhi ogni giorno"?
Certo, considerare differenti rappresentazioni della nostra quotidianità non è facile se non le vediamo o non abbiamo gli spunti (o l'iniziativa) per farlo.
Ed è qui che dobbiamo ricordarci di mettere in azione il sano meccanismo del dubbio.
L'Italia è un Paese multietnico e multiculturale, ma sembra che a volte questo dato generi ancora stupore.
Secondo l'ultimo Bilancio Demografico Nazionale dell'Istat:
«Al 31 dicembre 2019 si contano in Italia 194 differenti cittadinanze [...].
La graduatoria delle prime cinque cittadinanze resta stabile nel tempo, con le cittadinanze romena (1 milione 208 mila), albanese (441 mila), marocchina (432 mila), cinese (305 mila) e ucraina (240 mila) a rappresentare da sole quasi il 50% del totale degli stranieri residenti».
Persone di 194 differenti cittadinanze che, in Italia, studiano, lavorano, fanno la spesa, pagano le tasse, creano famiglie, viaggiano, adottano animali, comprano libri, vanno al cinema, frequentano locali, fondano imprese, si uniscono in cooperative, e mille altre cose.
Molte di queste persone si sono coordinate per fondare, nel 2017, il CoNNGI, Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane:
«Il CoNNGI, che raccoglie un insieme di associazioni radicate sul territorio e che vanno dal Piemonte alla Sicilia, è l'espressione di un ulteriore passo verso una presa di coscienza, che pone in primo piano il protagonismo dei giovani italiani con background migratorio, i quali rivendicano con determinazione la loro appartenenza all’Italia.
Il CoNNGI vuole essere soggetto rappresentativo della pluralità italiana nei diversi tavoli istituzionali, nazionali e internazionali.»
Ti consiglio di dare un'occhiata al Manifesto di CoNNGI: ci trovi i loro obiettivi associativi e molti dati interessanti sulla presenza delle nuove generazioni italiane in ambito scolastico e lavorativo.
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Tokenismo
Il lato scivoloso della comunicazione visiva inclusiva è la tokenizzazione delle persone. Qualcosa a cui prestare grande attenzione quando si progetta una strategia di comunicazione, sia essa in ambito aziendale, sui media o in politica.
In inglese token ha diversi significati: può indicare un pegno, un gettone, una testimonianza, ma anche una dimostrazione simbolica.
Proprio quest'ultima accezione ha dato vita al sostantivo dispregiativo tokenism, un atteggiamento di cui si sente sempre più parlare in campo "diversity&inclusion".
Per riprendere la definizione di Oxford Languages, per tokenism si intende «la pratica di fare un mero sforzo superficiale o simbolico per compiere una determinata azione, in particolare reclutando un piccolo numero di persone da gruppi sottorappresentati per dare l'apparenza di uguaglianza di genere o razziale all'interno del proprio organico aziendale».
Fare tokenismo, quindi, non è una bella cosa. Significa preferire la facciata alla sostanza, curare l'apparenza invece di impegnarsi per costruire una cultura aziendale realmente inclusiva e accogliente per tutte le persone.
Le persone e le loro soggettività diventano token, gettoni, pedine da posizionare nella scacchiera luccicante delle politiche di inclusione aziendale, ma senza dar loro alcun potere di cambiare le cose.
Dice Zara Chaudary, Diversity&Inclusion Strategist per Power to Fly:
«Le persone che vengono tokenizzate in azienda hanno maggiore visibilità , perché sono spesso un "unico" nella stanza. Se un'organizzazione si aspetta che una sola persona rappresenti e agisca come portavoce del suo gruppo d'identità , quella persona non potrà mai essere completamente sé stessa sul lavoro.
Sentirà la pressione di come vengono percepite le sue azioni, il modo in cui parla, come interagisce con gli altri, gli obiettivi che raggiunge, ecc.
Penso sia molto pericoloso perché le persone tokenizzate arrivano presto al burnout. Sono disilluse. Si sentono usate e non valorizzate».
Il concetto di unica persona nella stanza torna anche nel memoir di Nadeesha Dilshani Uyangoda, "L'unica persona nera nella stanza", pubblicato da 66thand2nd.
Poco prima della redazione del suo libro, Uyangoda aveva scritto un articolo sul tema per la rivista Not, in cui si legge:
«In generale, i Neri Italiani che vogliono avere una voce nel dibattito sociale sono costretti a fare fronte comune: si uniscono in associazioni, fondano riviste per poterci poi scrivere (Griot Magazine), aprono canali su YouTube per avere uno spazio pubblico di discussione (AfroItalian Souls). Si appoggiano a canali non tradizionali per raccontare chi sono e per diffondere una narrazione di se stessi che non sia stereotipata.»
Sul tema del tokenismo, puoi anche ascoltare questa bella puntata del podcast Sulla Razza.
Per altri punti di vista:Â
Quello che a lezione di storia non ci hanno insegnato: il corpo nero nei media italiani, Colory*, di Oiza Q. Obasuyi.
ÂTokenismo e diversità : quanto sono inclusive le serie tv in Italia e all'estero?, Vice, di Natasha Fernando.
ÂCinesi d'Italia, un podcast sulla più antica comunità straniera del nostro Paese, di Stefano Vergine.
ÂBeing black – but not too black – in the workplace, The Atlantic, di Aida Harvey Wingfield.
ÂOn token and tokenism, Arts&Letters, Tablet, Ishmael Reed.
ÂEspérance Hakuzwimana parla di letteratura, Italia e inclusione, Vice, di Maria Mancuso.
ÂUnderstanding the power of inclusive photography, Think With Google, Amy Brown, Branimir Iossifov.
Â5 (e più siti) dove trovare foto stock inclusive e non stereotipate, dal mio blog.
Per questo lunedì ho finito.
Ojalá è un progetto aperto e in evoluzione: se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza indugi.
Ti basta rispondere a questa email.
A presto,
Alice