Cosa laviamo oggi? 🚿
#21
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io faccio la copywriter, traduco molti prodotti WordPress e ho il pallino per il linguaggio inclusivo e accessibile. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Una delle cose belle che mi ha regalato Ojalá è la possibilità di innescare conversazioni dietro le quinte con chi legge la newsletter.
Ogni volta che invio un numero di Ojalá, ricevo email che mi ripagano delle ore di lavoro accumulate prima di premere invio ogni due lunedì. Ricevo anche molte domande che a volte mi ispirano per numeri futuri.
Come quello di oggi.
Sabrina, una collega che si occupa di scrivere contenuti per il web, mi ha mandato questo messaggio:
"Nelle ultime settimane, per via di alcuni contenuti che dovevo realizzare, mi sono trovata a riflettere sul perché un'azienda dovrebbe essere attenta ai temi dell'inclusività, per esempio nel linguaggio e nella comunicazione. Mi è stato chiesto se fare attenzione a questi aspetti basti davvero per definire un'azienda inclusiva o c'è altro."
Torno su un tema che ho trattato in altre salse qui su Ojalá, ma repetita iuvant.
La mia risposta breve è che no, il linguaggio e la comunicazione non bastano a dirsi "inclusivi".
A meno che non vogliamo usare la qualifica di inclusivo come la spilletta da appuntarci al petto e accantonare poi tutto l'impegno necessario per portare avanti azioni pratiche che cambino davvero le cose.
Non che veder spuntare spillette in ogni dove mi stupisca, eh.
Calati come siamo nell'epoca della performatività, del mostrare di essere dalla parte buona della storia, dello scrolling compulsivo tra le cause sociali su cui mettere il like, appuntarci una spilletta al petto ci fa stare bene.
Può essere un inizio.
Ci dà in qualche modo occasione di dire "ci sono anche io, mi interesso, mi unisco al #TeamDeiBuoni".
Solo che a volte si omette il finale, che più o meno suonerebbe come "Ah, la spilletta non basta? Uhm sai com'è, mica c'ho tempo per approfondire".
Come avevo già scritto nel :
"Sogno il giorno in cui, anche in Italia, il linguaggio inclusivo verrà considerato nella sua meravigliosa complessità: cioè come uno strumento di comunicazione sfaccettato, a cui non servono tifoserie ma persone pronte ad ascoltare e a mettere in pratica quello che imparano.
E non perché si tratta del trend del momento, ma perché comunicare come esseri umani rispettosi dei vissuti altrui dovrebbe, semplicemente, essere la priorità."
Tutto il resto, sono spillette (o washing, e ne parliamo tra qualche riga nel mini-glossario della comunicazione inclusiva).
Che poi, per dirla tutta, a me piacciono anche, le spillette. E i colori sgargianti. Questa per esempo è la spilletta, appuntata sul mio cappotto rosso, della campagna #BCNantimasclista del Comune di Barcellona.
"Només sí és sí" significa "Solo SÌ significa sì", il motto per promuovere la cultura del consenso contro la violenza sessista.
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
-washing
Suffisso.
Se non sai perché il suffisso -washing è entrato nel lessico della comunicazione inclusiva, puoi fartene un'idea partendo dal significato letterale della parola: pulire, lavare, immergere qualcosa in acqua per farla tornare pulita e profumata.
Spiega Kerry Maxwell, autrice di Brave New Words e della rubrica Buzzwords per il Macmillan Dictionary:
«Le origini del suffisso -washing risalgono al verbo whitewash (ndt. imbiancare, mascherare) del XVI secolo, che nel tempo ha assunto un senso figurato legato al fatto di impedire alle persone di scoprire la verità su qualcosa.
Tuttavia è solo in un passato più recente che abbiamo visto questa parola ispirare nuovi termini e, alla fine, dar vita al suffisso -wash(ing).»
Il suffisso -washing si può associare ad aggettivi, sostantivi e verbi per descrivere un fenomeno sempreverde: far credere che qualcosa — un prodotto, un'azienda, una campagna pubblicitaria, una linea politica... — abbia certe qualità anche quando potrebbe non essere del tutto vero.
Erano gli anni '80 quando si inizia a sentir parlare di greenwashing: aziende o altre organizzazioni promuovono il loro operato mettendo l'accento sulla loro attenzione all'ambiente, anche quando fanno il contrario di quello che predicano.
Uno dei primi casi di greenwashing è quello della compagnia petrolifera Chevron che commissiona una costosa campagna green su stampa e tv: si chiama People Do ed è un esercizio di superbia niente male.
Ecco uno dei video della campagna (puoi anche attivare i sottotitoli in inglese):
Ti traduco il copy perché potrebbe vincere il premio di rigiramento frittata:
"In un deserto della California illuminato dalla luna, una volpe sente che un coyote si aggira nelle vicinanze. Colta in fallo, corre verso un campo petrolifero e arriva di fronte a una di quelle curiose bocche costruite apposta per lei dalle persone che lavorano nel campo.
Si lancia dentro un tubo, troppo piccolo per il coyote, e si ritrova in una tana accogliente che la tiene al sicuro. Le persone fanno davvero queste cose solo per aiutare una specie in via d'estinzione a superare la notte? Sì, lo fanno. People do."
Le persone di Chevron sono davvero coccolose, ci dice lo spot: ok, ok, l'azienda ha appena pagato una sanzione di 1,5 milioni di dollari per aver scaricato illegalmente migliaia di litri di sostanze inquinanti nella baia di Santa Monica, ma nel frattempo sta costruendo rifugi per volpi, orsi e farfalle negli stessi terreni che poi devasta.
Non ci basta?
Negli anni, le declinazioni del washing si sono propagate come la gramigna.
C'è lo sharewashing, da share (condividere): la strategia ingannevole che suggerisce che un business sia motivato dai principi di condivisione tipici della sharing economy pura piuttosto che dai profitti. AirBnb, Uber, Lyft, Facebook, Google... hanno tutte fatto incetta del concetto di condivisione per venderci un nuovo modo di stare al mondo.
Di pinkwashing (da pink, rosa) e rainbow-washing (da rainbow, arcobaleno) potremmo fare mille esempi.
Il primo identifica le azioni di marketing che fanno l'occhiolino all'emancipazione femminile in senso lato; nasce però negli anni '90, per denunciare le aziende che si appropriavano del logo del fiocco rosa, simbolo della lotta contro il cancro al seno, per vendere i loro prodotti.
Dal sale alla carta igienica passando per i filetti di pesce, il pinkwashing non si ferma di fronte a nulla.
Il rainbow-washing ce lo becchiamo soprattutto nel mese di giugno, mese del Pride: il riferimento all'arcobaleno richiama i colori della bandiera del movimento LGBTQIAP+.
Il fenomeno del rainbow-washing è uno di quelli che riesce a tingere non solo aziende, ma interi Paesi.
È il caso di Israele, che da anni si promuove come meta turistica gay-friendly e progressista; e intanto nasconde sotto il tappeto i casi di omofobia in crescita, il razzismo nei confronti del popolo palestinese e l'occupazione militare di Cisgiordania e Striscia di Gaza.
Nel 2005, il Ministero degli Esteri israeliano ha lanciato la campagna Brand Israel stanziando più di 26 milioni di dollari per una promozione turistica del Paese. Una campagna sfaccettata, che faceva leva anche sui corpi delle soldate delle Forze di Difesa Israeliane (sia mai che ci si lasci scappare l'occasione di fare marketing sessualizzando le donne):
Nel 2007 il magazine statunitense Maxim promuove la campagna Brand Israel e, su invito del Consolato Generale d'Israele a New York, dedica la copertina alle soldate israeliane, ritratte in bikini e pose provocanti:
“Sono bellissime e possono smontare un Uzi in pochi secondi. Le donne delle Forze di Difesa Israeliane sono forse le soldate più sexy del mondo?”.
Il console generale israeliano Aryeh Mekel dichiara alla CNN:
«Israele è sempre menzionato nel contesto della guerra e del terrorismo... stiamo cercando di creare una situazione in cui si pensi al Paese in modo diverso».
Non mi viene in mente una migliore definizione di washing. 😬
5 consigli per fare meno performance e più pratica:
Dopo tanta teoria, lascio lo spazio agli spunti pratici.
Ne ho inseriti cinque:
- uno per chi vuole migliorare la propria scrittura;
- due per chi assume persone e deve decidere quanto pagarle;
- uno per chi progetta esperienze digitali;
- uno per chi organizza eventi e conferenze.
Parole rispettose, di Annamaria Anelli: un prezioso quaderno da scaricare sul linguaggio rispettoso del genere delle persone. È ricco di risorse, "strategie quotidiane per testi impegnativi" e pagine di allenamento con cui puoi metterti subito all'opera. Senza scuse (è pure, generosamente, gratuito!).
Inclusive hiring, there's a lot more than posting on the right job board, di Tara Robertson: se ti occupi di HR, questo è l'articolo per te.
Il punto è: prima di chiederti quali sono le piattaforme o le strategie migliori per pubblicare offerte di lavoro "inclusive", fai un'autoanalisi della reale cultura della tua azienda.
Come cresce e si sviluppa il tuo team? Chi riceve le promozioni e fa carriera? Quali persone hanno ruoli di leadership (o possono aspirare ad averne uno)? Chi ha dato le dimissioni e perché?
Pay equity strategies to embed in your hiring process, di Paria Rajai e Victoria Huynh: parliamo di parità salariale. Secondo l'ultimo Handshake Network Trends Report, il 62% della GenZ, che comporrà circa un terzo della forza lavoro entro il 2030, preferisce candidarsi per aziende che si impegnano concretamente per la parità di retribuzione, senza distinzioni di genere.
Quindi, come può fare la tua azienda per promuovere (e rendere concreta) l'equità retributiva già dalle prime fasi del processo di selezione? Molte risposte sono in questo articolo.
Design Books by Womxn & People of Color, di Yuan Wang: se ti occupi di design e digitale, ecco una fantastica lista di letture per mettere a fuoco la tua professione da un'angolazione diversa. Trovi consigli per studiare il mondo tech da una prospettiva inclusiva, cross-culturale, non euro-centrica, femminista, non abilista. La pluralità di voci necessaria per costruire sistemi rappresentativi dell'enorme eterogeneità umana.
Il database italiano di donne speaker ed esperte del mondo della tecnologia e del digitale. Da un'idea di Alessia Camera e con la collaborazione di SheTech, questo è il documento da consultare se stai organizzando una conferenza. Per non sentire più scuse come Non le abbiamo trovate! Non hanno risposto! Non erano disponibili! Non ci sono esperte in quel settore!
Per questo lunedì ho finito.
Ojalá è un progetto aperto e in evoluzione: se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza indugi.
Ti basta rispondere a questa email.
A presto,
Alice