Memoria collettiva ☮️
#23
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io faccio la copywriter, traduco molti prodotti WordPress e ho il pallino per il linguaggio inclusivo e accessibile. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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La newsletter di oggi avrebbe dovuto parlare d'altro ma non me la sono sentita di mandarla.
Mentre leggo le notizie di questi giorni e cerco di non farmi travolgere dalla spirale dell'ansia, mi sono tornati in mente gli incontri che ho seguito a ottobre dell'anno scorso durante SantPolDoc, il festival internazionale di fotografia documentale organizzato nel paesello catalano in cui vivo.
Ho deciso di seguire quei ricordi e di condividere alcuni degli appunti che avevo preso.
Uno degli incontri che mi aveva affascinata di più era stato quello con Anna Surinyach, fotoreporter freelance catalana che si occupa soprattutto di migrazione e diritti delle persone rifugiate. Curiosando sul suo sito puoi farti un'idea dei suoi lavori e delle aree del mondo che fotografa più spesso.
Il suo incontro si intitolava "La mirada de les dones en el fotoperiodisme" ("Lo sguardo delle donne nel fotogiornalismo") e partiva dal presupposto che, storicamente, il mondo è raccontato, anche visivamente, soprattutto dagli uomini.
Le donne vengono spesso raccontate in modo simile, plastico quasi.
Nei momenti più drammatici per l'umanità, le donne sono coloro che fuggono, che si occupano di trarre in salvo i bambini o le vittime che vengono nominate per prime.
Ma rimangono silenti, dipinte in un'immagine, volti di sofferenza muta.
E invece, diceva Anna Surinyach, amplificare la voce delle donne per parlare di crisi umanitarie serve ad allargare la prospettiva:
“Intervistare le donne prima di fotografarle mi ha permesso di dare uno spessore diverso al mio lavoro di reportage.
Parlare con le donne spesso aiuta a capovolgere la narrazione di una storia o il significato di un'immagine.
Le donne sono più propense a parlare di famiglia, di dinamiche umane, delle conseguenze profonde delle crisi umanitarie che vanno al di là delle immagini che scorrono frettolosamente su uno schermo.”
Lo stesso concetto si applica anche alle professioniste che lavorano dietro l'obiettivo come fotoreporter. Uomini e donne sperimentano la vita in modo diverso e hanno diverse prospettive da offrire, eppure la visione di ciò che costituisce una "buona fotografia", raccontava Surinyach, è stata ampiamente definita dal lavoro degli uomini.
E i numeri lo confermano. Dal 2017, l'associazione Women Photograph tiene traccia di una serie di dati per analizzare la situazione di professioniste donne e non binarie nell'industria del fotogiornalismo, calcolando anche quante riescono a far arrivare il loro lavoro nelle prime pagine delle più famose testate giornalistiche internazionali.
Gli ultimi dati sono del 2020:
Women Photograph ha analizzato le prime pagine 2020 di otto grandi quotidiani internazionali: per ognuno di loro ha indicato quante foto sono comparse in prima pagina e quante di queste erano scattate da donne.
New York Times: 462 foto in totale, 134 scattate da donne (29%)
Wall Street Journal: 378 foto in totale, 42 scattate da donne (11%)
Washington Post: 405 foto in totale, 100 scattate da donne (24.7%)
L.A. Times: 423 foto in totale, 87 scattate da donne (20.9%)
San Francisco Chronicle: 386 foto in totale, 167 scattate da donne (43.3%)
The Globe and Mail: 322 foto in totale, 45 scattate da donne (14%)
Le Monde: 316 foto in totale, 32 scattate da donne (10.1%)
The Guardian: 313 foto in totale, 26 scattate da donne (8.3%)
Risultati ancora poco confortanti, insomma.
Ma possiamo risalire alle origini di questa sotto-rappresentazione?
Racconta Celia Rose Jackson nell'articolo su The Conversation intitolato "Women were photography pioneers yet gender inequality persists in the industry today" (la traduzione è mia):
“Storicamente, il dominio patriarcale e le strutture di potere istituzionali furono rafforzate dal linguaggio e dall'immaginario usati nelle pubblicità di macchine fotografiche rivolte alle donne.
Mentre le pubblicità rivolte ai fotografi uomini presupponevano maggiori conoscenze tecniche e abilità, per vendere alle donne si usavano personaggi come la Kodak Girl.
Introdotta per la prima volta nel 1893, la Kodak Girl è stata presentata come un simbolo di indipendenza femminile, libertà e progresso per 80 anni, ma le implicazioni dietro a slogan come "anche la mamma potrebbe usarla" erano meno positive.
Nonostante questi stereotipi negativi, non tutte le donne furono dissuase dal comprare la loro prima macchina fotografica, eppure l'impatto a lungo termine del linguaggio di genere si riflette nelle statistiche di cui sopra.”
E visto il flusso di informazioni e immagini che ci scorrono davanti in questi giorni, non posso fare a meno di chiedermi se tutto questo potrebbe essere raccontato diversamente.
Storie, scorci, punti di vista diversi:
Come viene raccontata l'Ucraina da fotoreporter donne? Puoi fartene un'idea dando uno sguardo al lavoro di Anastasia Vlasova, Marta Iwanek (che trovi anche su Instagram), Oksana Parafeniuk (anche lei pubblica su Instagram).
Kyiv o Kiev? È facile prendere alla leggera un dibattito sulla nomenclatura di una città, ma per le persone coinvolte è spesso una questione che si intreccia con l'identità, la geopolitica e la sicurezza nazionale.
Il lavoro di Carole Alfarah, fotografa siriana residente a Madrid. Ha fotografato l'impronta della guerra nel suo Paese e ne ha mostrato gli angoli meno raccontati.
I progetti della Moleskine Foundation, non profit italiana con molti progetti artistici nel continente africano.
Per questo lunedì ho finito. Sono stata più breve del solito, ma oggi va così.
Ojalá è un progetto aperto e in evoluzione: se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza indugi.
Ti basta rispondere a questa email.
A presto,
Alice