Riconosco la mia maschera 🎭
#27
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io faccio la copywriter, traduco molti prodotti WordPress e ho il pallino per il linguaggio inclusivo e accessibile. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Tra pochi giorni parteciperò al WordCamp Europe, la conferenza europea dedicata a chi lavora con WordPress. Quest'anno si tiene a Porto ed è il primo grande evento in presenza della comunità dopo la pausa pandemica.
Sono emozionata, riabbraccerò molte persone che negli ultimi due anni ho potuto sentire solo per via telematica. Ma sono anche un po' nervosa: non solo perché tornerò dopo più di un anno e mezzo a parlare di fronte a un pubblico internazionale, ma anche perché so cosa mi succede durante questo tipo di eventi.
Tre giorni di conferenze, saluti, informazioni nuove, pranzi e cene in compagnia e quattro lingue di conversazione consumano ogni mia riserva energetica.
E non è stanchezza fisica, ma un progressivo svuotarsi della testa, un sibilo di forze che sfiatano piano da qualche buchetto della mente e mi lascia sgonfia, con un nodo alla gola e il bisogno di piangere.
È il peso della maschera, quella che mi ritrovo a indossare per far fronte alle aspettative in situazioni di networking come queste.
Essere affabile, presenziare al chit-chat delle pause caffè, rispondere alle domande, cercare di non fare figuracce (sono un'esperta di battute che capisco solo io), ricordare i nomi delle nuove persone, rimanere concentrata nonostante lo stress della presentazione, scacciare l'ansia dei problemi tecnici o del non poter accedere alle "note del relatore" mentre presento, rilassare la mascella se no poi, oltre al mal di testa, dovrò anche sorbirmi tutte le foto ufficiali che mi ritraggono con quella smorfia in cui leggo tutto il peso dell'extra-socializzazione.
Ora che so di funzionare così, ho cambiato il mio approccio a questo tipo di eventi. Non mi preoccupo più di sembrare scostante o meno socievole: ogni giorno, con religiosa dedizione, cerco di ritagliarmi del tempo da passare in solitudine, anche se significa rinunciare alla festa serale, quella che chiunque sembra attendere con trepidazione.
Leggo in camera o vado in giro, ma stare sola è necessario. Se non lo faccio, il periodo di recupero post-evento è più lungo e faticoso.
È curioso come, nonostante gli anni e i contesti diversi in cui mi muovo, certe necessità non siano cambiate. Da bambina mi succedeva lo stesso: ero quella che preferiva leggere Topolino alle attività in ludoteca; che sentiva tutto il peso degli eventi e delle storie altrui, anche quando non mi toccavano in prima persona; che a scuola si è sentita sempre dire “sei brava, ma dovresti intervenire di più” o “sei troppo timida, datti una svegliata”.
Ho imparato a svegliarmi, ad andare in fretta anche quando avrei voluto strascicare, a rispondere sì anche quando tutto il mio essere votava per il no, .
Ho fatto finta che la maschera non pesasse così tanto proprio lì, nel punto in cui si incontrano le sopracciglia.
E solo da adulta, anzi, da molto adulta – visto che si tratta di una consapevolezza non più vecchia di cinque anni – ho capito che avevo il diritto di dare retta alla mia testa. Prendere spazio, stare in silenzio, dire di no, smettere di correre, accettare la stanchezza o il fatto di non riuscire a essere sempre performante come i tempi richiedono: pazienza.
Il gioco parallelo
Qualche giorno fa, grazie a una delle decine di newsletter che leggo ogni settimana, ho conosciuto il podcast We Can Do Hard Things di Glennon Doyle. Mi ha attratto il titolo di uno dei suoi episodi, Hannah Gadsby: How to Communicate Better.
Hannah Gadsby – commediante autistica e queer, diventata famosa a livello internazionale grazie allo show Nanette (su Netflix) – racconta di come la neurodivergenza influisca sulle sue relazioni e sul suo modo di comunicare. Parla anche di come la conferma di essere nello Spettro Autistico (diagnosi ricevuta in età adulta) abbia avuto su di lei un effetto di “esfoliazione della vergogna”.
Traduco un passaggio della conversazione:
«Una volta capito di essere nello Spettro Autistico, arriva la consapevolezza di non poter controllare tutto. Non ti senti più una persona cattiva perché non ti interessano le chiacchiere di circostanza. Capisci che non è così che connetti con le altre persone, non è così che ti connetti con il mondo.
Io trovo la connessione attraverso le mie passioni e i miei interessi. E quando una persona neurodivergente vuole entrare in contatto con il mondo e con le persone, lo fa attraverso queste cose. Si chiede: cosa c'è di interessante?
Le persone neurotipiche, invece, si chiedono: cos'è importante? Le persone neurotipiche interagiscono e si relazionano faccia a faccia.
Sono dirette, mentre a me piace il gioco parallelo.
Vuoi conoscermi meglio? Mettiti lì e continua a fare quello che stai facendo. Io sarò nella stessa stanza a fare le mie cose.»
Io non sono nello spettro autistico (o meglio, non ho mai approfondito questa eventualità) ma in questa intervista a Hannah Gadsby ho riconosciuto alcune sensazioni familiari. In primis la confortevole sensazione del gioco parallelo, quello che non ti obbliga a interagire ma che si fonda comunque sulla condivisione di spazi comuni e accoglienti.
E poi l'idea che ogni persona ha il suo modo di funzionare, e a volte forzarsi di fare diversamente significa indossare una maschera troppo pesante.
Mini glossario della comunicazione inclusiva
Il contributo di questa settimana è di Eleonora Marocchini: psicolinguista, ricercatrice, docente e creator col nome di @narraction, si occupa di pragmatica, Spettro Autistico e linguaggio inclusivo, cercando di conciliare obiettivi e metodi della ricerca scientifica e istanze e riflessioni delle comunità.
Neurodiversità, neurodivergenza, neuroatipicità
Da un po’ di tempo a questa parte, si sente parlare più spesso di neurodiversità.
Sarebbe un ottimo segno, se non ci fosse molta confusione sul significato dei termini che ormai rimbalzano sui social, agli eventi pubblici, negli studi psicoterapici e perfino sui media tradizionali.
Il fraintendimento non è tanto grave sul piano descrittivo, quanto rilevante sul piano delle implicazioni. Facciamo dunque un po’ di chiarezza sui termini neurodiversità, neurodivergenza e neuroatipicità.
In principio era il modello medico, che definisce l’atipicità, compresa l’atipicità neurologica (la neuroatipicità, appunto), su base statistica. Più precisamente, il contesto in cui è più frequente che si parli di neuroatipicità è quello delle cosiddette condizioni del neurosviluppo (spettro autistico, ADHD, disprassia, dislessia, discalculia, per dirne qualcuna). Se le nostre abilità motorie, linguistiche e cognitive, non si sviluppano secondo le tappe e i modi previsti dalle osservazioni statistiche di che cosa sia più comune (neurotipico), riceveremo diagnosi di una qualche neuroatipicità.
Alla comunità autistica quest’idea di atipicità e di confronto con la “norma” statistica, che da descrittiva si è fatta prescrittiva (per approfondire si veda “Enforcing Normalcy”, di L.J. Davis) non piaceva molto.
Così dalla penna di Judy Singer, sociologa autistica, nacque, nel 1998, il concetto di neurodiversità (si legga “Neurodiversity: the birth of an idea”).
La neurodiversità è il corrispettivo neurologico della biodiversità: comprende chiunque abbia un cervello, non solo le persone neurodivergenti (termine più politico per dire “neuroatipiche”), ma anche quelle neurotipiche.
Celebra l’esistenza e il valore di tutti i neurotipi esistenti, ugualmente validi e diversi fra loro.
Ne consegue che si possa certamente dire che un gruppo di persone è neurodiverso, se include persone di neurotipi diversi, ma non che una data persona sia neurodiversa.
Sul piano delle implicazioni, è interessante osservare l’uso di “neurodiversa” in luogo di “neuroatipica” o “neurodivergente”. Suggerisce, infatti, che a una persona neurotipica disturbi l’idea di essere inclusa nella naturale diversità, piuttosto che distinta ed elevata a pietra di paragone per persone “(neuro)diverse” da lei.
C’è chi suggerisce che la confusione derivi proprio dalla polisemia della parola “diversità” in italiano, che suggerirebbe prima “differenza” che “varietà”. Il fatto che talvolta si leggano, ormai, espressioni surreali come “persona affetta da neurodiversità” suggerisce però che, qualunque sia la causa del fraintendimento, il rinnovamento lessicale non ha ancora portato all’abbandono dello stigma verso la neurodivergenza - cui il concetto di neurodiversità si oppone strenuamente, “per definizione”.
Altre cose che ti consiglio di leggere
5 falsi miti da sfatare sull'autismo secondo Fabrizio Acanfora e Giulia Gazzo, intervista di Roberta Cavaglià per The Wom.
«La maggior parte delle persone, purtroppo, sembra ancora voler sentir parlare di autismo in termini pietistici, medicalizzati e sensazionalistici. Quando rifiutiamo questa narrazione, molte persone rispondono con aggressività. Perché non rappresentiamo più l’autismo che si aspettavano, che fa sentire a proprio agio.»
La psicologa Sara Colognesi ha scritto un articolo su malattia cronica e teoria dei cucchiai, e ricorda che è una metafora che si applica perfettamente anche a disturbi psicologici e neuroatipicità.
«Capite ora perché una persona con una malattia cronica dice di no alle cene, ci pensa su tantissimo prima di aderire a una attività extra e magari poi annulla l’appuntamento all’ultimo minuto?»
Content Accessibility. Quando spunta il termine accessibilità, per molte persone il primo pensiero è: lettori di schermo. Ma questo sempreverde articolo di Sarah Winters (che mi è capitato sotto mano mentre cercavo di risollevarmi dopo una conversazione "anti-accessibilità" con un potenziale cliente) ricorda che progettare contenuti in modo accessibile fa una grande differenza per le persone che leggono. Tutte le persone, che usino o meno lettori di schermo e che abbiano o meno una disabilità.
Per questo lunedì ho finito. Se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza problemi.
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A presto,
Alice