La settimana scorsa, nel freschetto di una notte estiva, mi sono goduta Halftime. È il documentario in cui Jennifer Lopez – una delle mie cotte VIP dal 1999 – riflette sulla sua poliedrica carriera e sul percorso che l'ha portata sul palco del Super Bowl a febbraio 2020.
Il documentario tratta le molte facce del talento di J.Lo: la danza, la recitazione, la musica e, più di recente, la produzione cinematografica con Hustlers, film del 2020.
Quello che rende Halftime interessante è però il discorso politico che permea il racconto della superstar nei suoi tanti ruoli professionali.
Del suo lavoro nel cinema, per esempio, dice:
«Hollywood è gestita dagli uomini. Sono loro a decidere cosa vende e cosa no. È ora di cambiare le cose. [...] Hustlers (è un film che) ha solo donne nel set, è un'esperienza diversa. Non capita spesso in Hollywood: ho fatto 40 film e non mi era mai successo.»
Negli anni si è parlato di lei come di una star che fa vendere tabloid piuttosto che di una professionista e imprenditrice eclettica. È andata avanti nonostante sia stata spesso ridotta alla barzelletta della latina frivola che ha successo grazie a un bel fondoschiena e ai fidanzati famosi.
Nel 2019, quando viene girato Halftime, Trump è ancora al potere.
Le immagini dei bambini che attraversano il confine Messico-USA, poi vengono imprigionati e separati dai genitori, fanno il giro del mondo.
I preparativi per il Super Bowl 2020 si tingono dei colori della protesta sociale: il gesto di Colin Kaeprnick che si rifiuta di stare in piedi mentre suona l'inno USA è ormai supportato da decine di altri giocatori e fa ancora più rumore durante le proteste del Black Lives Matter.
La NFL (la lega professionistica nordamericana di football) teme per la sua immagine pubblica durante le proteste, e decide che per la prima volta sarà una cantante latina a salire sul palco del Super Bowl.
Jennifer Lopez è la favorita, ma in breve arriva anche il colpo di scena, verrà affiancata da Shakira.
«Di solito c'è una sola star al Super Bowl, e quell'artista struttura lo show. Se decide di avere altri ospiti, è una sua scelta. È un insulto insinuare che servano due latinas per far ciò che storicamente aveva sempre fatto un solo artista», racconta il suo manager Benny Medina.
Il documentario racconta una storia in cui sono rilevanti la questione razziale, partendo dalle origini latine di J.Lo, e la rappresentazione delle comunità minorizzate in una società che sta seriamente facendo i conti con il razzismo.
Se non lo sai ancora, non ti spoilero il modo in cui J.Lo sintetizza questo contesto nel suo spettacolo al Super Bowl: se non ti va di scoprirlo guardando tutto il documentario, trovi una buona analisi in questo articolo del Guardian e poi nel video dello show (dai, sono 14 minuti di buenas vibras!).
Alcuni passaggi di Halftime mi hanno fatto tornare in mente un progetto di cui mi aveva parlato la mia amica Claudia qualche mese fa, dopo aver visto una mostra all'Osservatorio Fondazione Prada di Milano.
Parlo di Typecast, una serie di ritratti satirici che affronta il typecasting, la pratica di assegnare determinati ruoli cinematografici sempre allo stesso tipo di persone.
Haruka Sakaguchi e Griselda San Martin fotografano attrici, attori e attorɜ di diverse origini etniche mentre interpretano due ruoli: quello che risponde allo stereotipo razziale e quello che sognano di interpretare.
Resha Gajjar, attrice di origine indiana, ha più di 11 anni di esperienza. Il suo ruolo "typecast" è la donna indiana. Il ruolo che sogna di interpretare: Lara Croft.
Dartel McRae è un attore nero con più di 10 anni di esperienza. Il suo ruolo "typecast" è il criminale. Il ruolo che sogna di interpretare: l'avvocato.
La mancanza di diversità etnica (ma non solo, per ora non apriamo il vaso di Pandora della narrazione della disabilità) è uno dei problemi più radicati nell'industria cinematografica, a Hollywood come altrove.
Negli Stati Uniti, le minoranze etniche costituiscono quasi la metà della popolazione statunitense, ma solo il 13,9% dei ruoli da protagonista è assegnato a persone razzializzate.
In Italia le cose non vanno certo meglio.
Un anno fa, Vice ha pubblicato Tokenismo e diversità: quanto sono inclusive le serie tv in Italia e all’estero?, intervista di Natasha Fernando alla regista/attrice afroitaliana Daphne di Cinto, che dice:
Mi sono trasferita a Roma a studiare recitazione e mi sono resa conto che non avrei mai potuto costruire una carriera da attrice in Italia. Ho iniziato a volermene andare proprio perché i soli ruoli che mi venivano affidati erano lo stereotipo del background della persona nera, quello della prostituta e dell’immigrata.
Non c’erano ruoli in cui effettivamente mi potessi rispecchiare: non veniva riconosciuto il fatto che ci fossero persone non bianche oltre i soliti stereotipi. Non c'era mai il ruolo della ragazza della porta accanto, non c'era mai fondamentalmente neanche il ruolo dell'amica della protagonista, perché, mentre magari in America è nera, l'amica della protagonista in Italia è comunque bianca.
Letture che ti consiglio
La Corte Suprema USA annulla il diritto costituzionale all'aborto. Tante aziende con base negli USA stanno dichiarando che copriranno i costi per le dipendenti che devono recarsi fuori dallo Stato per abortire.
Come al solito, però, saranno le persone razzializzate, con disabilità o meno abbienti e che vivono lontano dalle grandi città a subire le conseguenze più gravi di questa sentenza. La rivista Nature lo dimostra con una mappa sulle sedi delle cliniche abortive nel Paese e le larghe distanze che dovranno percorrere le persone che vivono in certi Stati.
Se stai pensando che questa notizia abbia poco a che fare con la realtà nostrana, ricorda che l'obiezione di coscienza nei confronti dell'interruzione volontaria di gravidanza è un problema molto italiano e ancora troppo diffuso.
Secondo la ricerca "Legge 194 Mai Dati" a cura di Chiara Lalli, Sonia Montegiove e Associazione Luca Coscioni, in Italia esistono 72 ospedali che hanno tra l'80 e il 100% di personale medico obiettore di coscienza. In 11 regioni c'è almeno un ospedale con il 100% di obiettori.
E queste sono informazioni ottenute con difficoltà, perché i dati ministeriali ufficiali sulle strutture che praticano interruzioni volontarie di gravidanza sono chiusi, aggregati solo per regione e obsoleti.
In questo contesto, torna molto utile capire meglio quali dati personali stiamo dando alle app di monitoraggio per il ciclo mestruale.
Come racconta Donata Columbro su La Stampa in "Quanto sanno di noi le app sul ciclo?":
«In un Paese in cui l’accesso all’interruzione di gravidanza diventerebbe fuori legge, i dati delle persone che usano l’app per monitorare il ciclo - e tutto quello che è connesso, come gravidanza, aborti - potrebbero essere acquistati da gruppi antiabortisti per denunciare e segnalare le pazienti e il personale di cliniche e ospedali».
Donata sta continuando a parlarne anche nel suo profilo Instagram, seguila.
Raccomandazione per il futuro:
In queste settimane sto terminando il corso How to start seeing colors.
Si tratta di una formazione di 14 ore su come trovare nuove chiavi di lettura per riconoscere e affrontare il razzismo sistemico e le diseguaglianze sociali che gravano sulle spalle delle persone razzializzate, con un riflettore puntato sulla situazione italiana.
In queste settimane, le lezioni online sono state guidate da tre docenti eccezionali: Kaaj Tshikalandand, mediatrice, antropologa culturale e Oracolo tradizionale Lunda; Stefania N'Kombo José Teresa, dottoressa in filosofia e attivista intersezionale; Anthony Chima, Engagement Specialist esperto in diritti umani presso una realtà no profit e attivista. Il tutto coordinato dalla bravissima Giulia Trapuzzano.
Ecco, il corso sta per finire ma si vocifera che ci sarà una seconda edizione in autunno.
Il mio consiglio spassionato: se puoi, PARTECIPA!
Al momento credo non esista un percorso in italiano così completo e ramificato che approfondisce storia, antropologia e origini dell’oppressione razziale e poi le interseca con il femminismo, l'intersezionalità e mille spunti dall'attualità nostrana.
Mini glossario della comunicazione inclusiva
Femminismo bianco
È l'espressione che si usa per descrivere i discorsi e le attività femministe che si occupano delle questioni importanti per le donne bianche, ma che escludono o non affrontano quelle rilevanti per le persone razzializzate e/o parte della comunità LGBTQIA+.
Come ricorda la voce "white feminism" su Dictionary.com (traduzione mia):
Le prime due ondate del femminismo (la prima focalizzata sul diritto di voto e la seconda sulla lotta per una maggiore uguaglianza su diversi altri fronti) sono state considerate esempi di femminismo bianco: hanno escluso in larga misura le donne nere e le donne della comunità LGBTQ+.
In un bellissimo articolo intitolato The Gaps of White Feminism and the Women of Color who Fall Through, Jahdziah St. Julien ed Emily Hallgren ricordano che già nel 1866 le donne nere chiedevano un movimento femminista più inclusivo e (termine che a quei tempi non esisteva ancora):
Un anno dopo la Proclamazione di Emancipazione, Frances Ellen Watkins Harper, donna nera, oratrice, abolizionista, attivista e scrittrice, tenne un discorso alla Convenzione nazionale dei diritti delle donne del 1866.
Mise in discussione l'incapacità del femminismo bianco di lottare contro l'oppressione razziale che colpiva le donne nere.
“Se c'è una classe di persone che ha bisogno di essere sollevata dalle sue arie e dal suo egoismo, sono proprio le donne bianche d'America", concludeva Harper. In questo discorso alludeva alle carenze del femminismo bianco suffragista, esprimendo la necessità di un'ideologia diversa, radicata nella liberazione di tutte le donne.
L'espressione come la conosciamo oggi compare per la prima volta nel 1986 nel testo di Paula Gunn Allen: Who is Your Mother? Red Roots of White Feminism. Torna poi alla ribalta durante la terza ondata del femminismo negli anni Novanta, insieme a concetti come diversità, identità e intersezionalità.
Scrive Rachel Elizabeth Cargle su Harper's Bazaar:
[Il femminismo bianco] è quell'atteggiamento mascherato da femminismo solo finché fa comodo, finché risulta personalmente gratificante, e mantiene in piedi il proprio "brand". Ma se la storia di questo movimento ci ha insegnato qualcosa, è che l'intersezionalità nel femminismo è vitale.
Non possiamo dimenticare il modo in cui le suffragette hanno respinto le voci delle donne nere, relegandole alla coda delle loro marce. Attiviste nere come Ida B. Wells e Anna Julia Cooper hanno fatto passi da gigante lottando per il voto ma anche per i loro diritti come persone nere [...]. Senza un'inclusione intenzionale e basata sull'azione delle persone BIPOC (Black, Indigenous and People of Color), allora il femminismo è semplicemente supremazia bianca con i tacchi.

Per questo lunedì ho finito. Credo che in questo periodo estivo Ojalá arriverà con più calma. Forse una volta al mese, forse meno, chissà: ti avviso in ogni caso.
Intanto se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza problemi. Ti basta rispondere a questa email.
A presto,
Alice
P.S. Non sai ancora che libro leggere quest'estate?
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