#34 Perché le donne (del settore tech) sono sempre arrabbiate?
Stralci di quotidiano sessismo quando sei una donna che lavora nel tech.
Foto estrapolata da questa volta qui.
Tantissime grazie per lo splendido lavoro di supporto, si nota che hai sangue italiano, sei dolcezza pura.
— Juan, conversazione in spagnolo in live chat, ottobre 2015
Me le segnavo tutte, le frasi sessiste dei clienti che comparivano nel campo messaggi della chat del supporto tecnico. In quel periodo, ottobre 2015, ero appena entrata nella squadra di un plugin di cache per siti WordPress, mi occupavo del supporto tecnico multilingue. Tra email e live chat, ogni giorno comunicavo in quattro lingue con persone da ogni angolo del mondo.
La squadra del supporto tecnico in cui lavoravo oggi sarebbe un perfetto manifesto di Diversity&Inclusion: dalla Francia alla Serbia, passando per India, Stati Uniti, Colombia e Argentina, il nostro era un gruppo unito da una lingua franca – l’inglese – e dal grande privilegio di poter lavorare da remoto.
Ma in quanto a origini etniche, credo religioso, orientamenti sessuali e identità di genere, l’eterogeneità era il nostro comune denominatore.
Ci occupavamo di supporto al cliente per un software piuttosto tecnico; la maggior parte dei nostri clienti erano persone che lavoravano a vario titolo nello sviluppo web. Io mi sentivo un pesce fuor d’acqua: non sapevo nulla di programmazione, PHP, mercato SaaS.
Sapevo studiare, però, e quello feci con tutto l’ottimismo che mi contraddistingue quando inizio una nuova pagina della mia vita. Sapevo anche comunicare bene e in condizioni difficili: dopo gli anni di lavoro in una clinica di riproduzione assistita, dover parlare di siti WordPress mi sembrava sufficientemente sicuro e di certo meno drenante a livello psicologico.
Se quello in clinica era un gineceo in pieno regola, però, il lavoro nel tech era (ed è ancora) un affare molto maschile. L’etichetta di “donna nel tech” mi rimbalzava tra occhi e orecchie innumerevoli volte alla settimana. Lo sentivo durante le riunioni con i developer (per diversi anni erano tutti uomini cis) e nelle comunicazioni con i clienti.
Era straniante sentirsi parte di una squadra di supporto affiatata ed eterogenea e poi scontrarsi con il pregiudizio sessista nelle comunicazioni esterne. Pregiudizio spesso attivato perché il nome che spuntava in cima alle mie email o ai messaggi di live chat era femminile:
Grazie per la risposta. Ho appena scommesso con il mio collega che non puoi essere una donna. C’è un uomo dietro il tuo nickname, vero?
— Steve, conversazione in inglese in live chat, novembre 2015
Mi mandi una foto?
Le difficoltà di accesso (e permanenza) delle donne e delle persone di genere non conforme nel settore tech sono un problema di lunga data.
Sessismo, paternalismo, invisibilizzazione, gatekeeping: se anche tu lavori in questo ambito probabilmente hai un’idea del tipo di micro e macro aggressioni che permeano lo scintillante mondo dell’innovazione tecnologica.
Quella sensazione di inferiorità di fronte a una platea in prevalenza maschile – fossero colleghi, clienti o partecipanti a una conferenza – è stata una delle più difficili da decostruire, per me.
Grazie mille per la risposta. Ora puoi mandarmi anche una foto del tuo culo?
— Marc, conversazione in francese in live chat, febbraio 2016
Mi è ancora difficile trovare le parole per il senso di umiliazione che mi pervadeva quando il mio lavoro veniva sminuito con un commento sessista; soprattutto agli inizi, quando io stessa mi alzavo ogni giorno chiedendomi cosa mi fossi mai messa in testa. Perché avevo deciso di complicarmi la vita passando al tech?
Di recente ho letto il sondaggio The state of gender equity in tech condotto da Web Summit all’interno della community Web Summit Women in Tech; il campione non è certo dei più consistenti (340 persone), ma l’ho trovato interessante da leggere. Restituisce l’ennesimo sguardo desolante sul trattamento riservato alle donne che lavorano nel tech.
L'indagine rivela che negli ultimi 12 mesi quasi il 67% delle donne intervistate ritiene di essere pagata in modo non equo rispetto alle controparti maschili.
Nel 2019, il 46,4% delle persone intervistate riteneva di ricevere una retribuzione equa, mentre nel 2022 questa percentuale è scesa al 33,1%.
Il 61,9% delle persone intervistate si sente addosso la pressione di dover dimostrare in continuazione il suo valore rispetto ai colleghi uomini. Il 37,3% sente il bisogno di scegliere tra seguire la carriera o seguire la famiglia.
Se ti interessa capire meglio la situazione del divario di genere nel settore tech italiano, invece, puoi fare riferimento al recente studio di SheTech e IDEM: Tech — (Non) è un lavoro per donne.
I dati assenti
La verità è che di indagini sul tema ormai è pieno il web. Bene, ma non benissimo. Perché più i report si avvicendano anno dopo anno, più sento forte e chiara la grande assente: l’esperienza delle persone trans, non binarie e di genere non conforme.
La mia osservazione empirica è sicuramente fallace: nella mia bolla social, e in particolare su Twitter, dove interagisce la gran parte della community WordPress in cui mi muovo anche io, ho incrociato diverse persone trans e non binarie con una professione nel tech.
Ma è davvero difficile trovare dati e report che le includano e che esplorino le loro condizioni di lavoro nel settore (e nel mondo del lavoro in generale, per dirla tutta).
D’altronde, come ricorda Monica J. Romano in un pezzo dell’anno scorso per inGenere «per evitare le discriminazioni le persone transgender, gender non-conforming e non-binary sono spesso portate a celare, per quanto possibile, la propria reale identità di genere. La carriera o la stabilità del posto di lavoro sono influenzate dal rendere pubblica o meno la propria condizione: la diffusa disinformazione sulla realtà trans “genera spesso equivoci, imbarazzo e a volte violenza e aggressività”».
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1.
L’anno scorso, Emily Kager scriveva su Mashable l’articolo che dà il titolo a questo episodio di Ojalá: Why women in tech are so angry all the time.
Te ne traduco un estratto:
Le donne non possono ancora permettersi di essere troppo aggressive, troppo autoritarie, troppo amichevoli o non abbastanza amichevoli, altrimenti rischiano la carriera.
Sostenere la parità di retribuzione può farvi etichettare come "problematiche", nonostante il popolare consiglio secondo cui le donne dovrebbero semplicemente "farsi avanti".
Se ci si ribella alle molestie, si può essere ostracizzate nel settore o, peggio, portate in tribunale dal datore di lavoro per aver violato i rigidi accordi di riservatezza.
Troppo spesso gli abusatori di queste storie ricevono in silenzio lauti compensi, mentre le sopravvissute vengono pubblicamente mobbizzate e lasciate con un pugno di mosche in mano. Sarebbe un messaggio forte se le aziende stessero dalla parte delle sopravvissute invece che da quella degli abusatori, ma non ci spererei.Ellen Pao. Susan Fowler. Timnit Gebru. Emi Nietfeld. Ifeoma Ozoma e Aerica Shimizu Banks. E molte altre ancora. Negli ultimi anni donne dell'industria tech si sono fatte avanti per condividere le loro esperienze con temi diversi ma universali riguardanti molestie sessuali, disuguaglianza e discriminazione.
Quante altre storie ci sono là fuori che non possono essere raccontate?
2.
Sto leggendo “Alfonsina e la strada” di Simona Baldelli (ed. Sellerio), la storia e le avventure della ciclista che per prima sfidò il maschilismo sportivo.
Ieri ho trovato un passaggio che penso inserirò nelle mie formazioni sui linguaggi inclusivi con prospettiva di genere.
Antefatto: è il 1917, l’Italia è in guerra e Alfonsina Strada, che ha già collezionato successi ed è conosciuta come la regina della pedivella, ha deciso di iscriversi al Giro di Lombardia – lo stesso Giro riservato ai ciclisti uomini, perché le gare femminili di ciclismo sono state tutte sospese.
Va alla redazione della Gazzetta dello Sport per iscriversi:
«Voglio partecipare al Giro di Lombardia» disse d’un fiato.
Varale allargò le braccia. «Non ci sono gare femminili di questo genere, signora. C’è la guerra».
«Lo so» ribatté Alfonsina. Madonna santa, perché le dicevano sempre la stessa cosa? Pensavano vivesse sulla luna?
«Io parlo di quello degli uomini, che parte la settimana prossima».
Il direttore sobbalzò. «Ma voi siete una donna!».
Ma va’?, avrebbe voluto rispondergli. Preferì rimanere zitta e aspettare la reazione di Cougnet. Lui la fissava con un sorriso sulle labbra difficile da interpretare.
«Parli seriamente?» le domandò.
«Mai stata più seria di così».[…]
Varale prese la tessera e la studiò con attenzione. Poi gliela consegnò.
«Allora dovreste sapere cosa c’è scritto, ovvero che certe competizioni sono riservate solo ai corridori. Quindi agli uomini».
Aveva pronunciato le due parole lentamente, insistendo sulle i che ne definivano il genere maschile.Alfonsina si alzò e andò alla finestra. Si stava innervosendo e invece le conveniva rimanere calma. Nella via, uomini e donne camminavano in un senso e nell’altro. Ma, se avesse voluto indicare l’insieme, la moltitudine, avrebbe parlato di loro al maschile: i passanti. I viaggiatori sono andati, i passeggeri sono tornati. Era sufficiente che vi fosse un uomo in un gruppo di femmine perché la parola diventasse di genere mascolino.
[…]
«È colpa della nostra lingua» disse.
I due uomini si sporsero verso di lei contemporaneamente. «Cosa?».
Sicuro, precisò Alfonsina.
I termini corridori o ciclisti definivano un insieme misto ed era impossibile distinguere con esattezza chi lo componeva.
«Queste cose le so persino io che ho fatto solo due anni di scuola, figuriamoci dei professoroni come voi. Piuttosto, per il futuro, inventate delle parole più precise» concluse.[…]
Armando continuava a sghignazzare e si dava grandi manate sulle ginocchia, un po’ per scansare la brace caduta sui pantaloni, un po’ per sfogare la ridarella. Gli ci volle molto per riprendere fiato. Si alzò e andò alla finestra, nel punto in cui si era fermata Alfonsina. Osservò l’edificio rossiccio, forse anche a lui sembrava un alveare e poi abbassò lo sguardo alla strada.«Povera gente, laggiù» mormorò. «Magari l’idea di una donna che corre con gli uomini non gli andrebbe a genio, ma avrebbero di che parlare».
Tornò lentamente alla scrivania. «Mi avevi già convinto all’inizio» disse, «ma se ti avessi detto subito di sì, mi sarei perso una bella lezione di italiano».Varale lo fissò a bocca aperta. «Hai intenzione di accettare l’iscrizione?». «Senza un’ombra di dubbio» rispose Cougnet.
Un po’ di Scrivi e lascia vivere
Scrivi e lascia vivere è il manuale pratico di scrittura inclusiva e accessibile che ho scritto insieme a Valentina Di Michele e Andrea Fiacchi per edizioni Flacowski. Puoi ordinarlo sul sito della casa editrice, in tutte le librerie online o in quella più vicina a te.
• Quando parliamo siamo (davvero) inclusivi?
Otto consigli di scrittura inclusiva che io, Valentina e Andrea abbiamo scritto per Vanity Fair.
• Se vuoi leggere qualche retroscena sulla genesi del libro e sul nostro percorso, l’intervista di Natah Bonnì per il blog Progetto Gender Queer raccoglie un po’ di materiale.
• Come si cambia un territorio?, si chiede Gianvito Fanelli in un post su LinkedIn di qualche giorno fa. Mi emoziona molto che tra le sue risposte ci sia anche la presentazione di Scrivi e lascia vivere organizzata da spazio LOI a Conversano (Bari) lo scorso 21 ottobre. Lo sciopero dei voli ha rovinato i miei piani pugliesi, ma anche a distanza ho potuto percepire il calore e la bellezza del ritrovarsi per dialogare di comunicazione inclusiva, classismo e accessibilità digitale:
Per questo lunedì ho finito. Se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza problemi.
Ti basta rispondere a questa email.
A presto,
Alice