Una delle ultime newsletter della scrittrice afrofemminista Desirée Bela-Lobedde conteneva questa video-poesia della poeta Hafsat Abdullahi:
Ti trascrivo il testo e più avanti te lo traduco (mi scuso in anticipo per eventuali imprecisioni, tradurre poesia non è il mio lavoro):
To the girl in the english class
What is funny
What is so hilarious about my painful attempt
to communicate in a language
that is not even my own
See, this accent
tells a story of survival
tells how my mother tongue
endures till this day
so I expect you treat my
tongue with some respect
every word, every syllable I utter
comes from a riot within
my mouth is a babel between
subconscious
tongue
teeth and vocal chord
so excuse you
if my speech does not soothe you
You see, this speech
comes from this slaughter house I call a mouth
See, my mouth is a battlefield
a clash of unyielding cultures
waring for dominance
see my tongue is a traumatized survivor
lost in this alien fluency
See, this accent is how I find my way home
How I say inikpi without biting my tongue
See my tongue is forever at war with itself
Forever fighting to decolonize itself
fighting to loose and regain itself
all at the same time
so cut me some slack!
(agbiti megi neke loki ogi shin) - (Two elephants cannot pass a feeble bridge)
I will not be ashamed nor refrain
from saying my name and no
I will not apologize for my mother’s legacy
for there is no dignity
in denying my identity
So to the girl in english class
Ewú shoduwè? (What is your name?)
It’s about time you learn
my own language too
In italiano suonerebbe così:
Alla ragazza del corso di inglese
Cosa c'è di divertente
Cosa c'è di così esilarante nel mio doloroso tentativo
di comunicare in una lingua
che non è nemmeno la mia
Vedi, questo accento
racconta una storia di sopravvivenza
racconta come la mia lingua madre
resiste fino a oggi
quindi mi aspetto che tratti la mia
lingua con un certo rispetto
ogni parola, ogni sillaba che pronuncio
proviene da un tumulto interiore
la mia bocca è una babele tra
subconscio
lingua
denti e corde vocali
quindi scusa
se il mio discorso non ti tranquillizza
Vedi, questo discorso
viene fuori da questo mattatoio che chiamo bocca
Vedi, la mia bocca è un campo di battaglia
uno scontro di culture inflessibili
che si contendono il predominio
la mia lingua è una sopravvissuta traumatizzata
persa in questa fluidità aliena
Vedi, questo accento è il modo in cui trovo la via di casa
è il modo in cui dico inikpi senza mordermi la lingua
La mia lingua è sempre in guerra con se stessa
lotta perennemente per decolonizzarsi
lotta per perdere e riconquistare se stessa
tutto allo stesso tempo
quindi dammi un po' di tregua!
(agbiti megi neke loki ogi shin) - (Due elefanti non possono passare su un ponte vacillante)
Non mi vergognerò e non mi asterrò
dal dire il mio nome e no
non mi scuserò per l'eredità di mia madre
perché non c'è dignità
nel negare la mia identità
Così, ragazza del corso di inglese
Ewú shoduwè? (Come ti chiami?)
È ora che anche tu impari
la mia lingua
Così la commenta Bela-Lobedde:
Parlare con un accento di qualche zona del Sud Globale è fonte di derisione e di costanti tentativi di correzione da parte delle persone occidentali bianche. E quando si tratta di persone nere o di altra origine razziale nate in Occidente, veniamo lodate. Ci viene detto «come parli bene lo spagnolo», che in realtà significa «hai la nostra approvazione perché parli come noi».
[…]
Credere che esistano lingua di prima e seconda categoria, correggere o deridere gli accenti sono alcuni dei modi in cui la violenza epistemica viene esercitata contro le persone razzializzate.
Ho ripensato a quante volte, negli anni in cui lavoravo nella clinica di riproduzione assistita a Barcellona, ho parlato in francese con pazienti di origine africana. Ricordo benissimo l’accento di alcune di loro, molto diverso da quello dei corsi di lingua canonici su cui anche io imparai il francese all’università.
Ho ripensato alle volte in cui quell’accento è stato oggetto di scherno tra colleghe, come se fosse catalogabile tra gli aneddoti divertenti che coloravano certe giornate lavorative.
Sono passati dieci anni e in questo lasso di tempo anche il mio pensiero e la mia coscienza antirazzista sono maturati: ora reagirei in un altro modo di fronte a certe battute, mi dico. Questo non significa certo che il mio percorso nell’antirazzismo sia concluso, al contrario (potrà mai dirsi finito? Sospetto di no): se continua a progredire e a farsi ogni giorno più forte lo devo anche a tante persone e realtà che seguo dall’Italia, dalla Spagna e da altre zone del mondo.
Te ne segnalo alcune che scrivono in italiano:
le scrittrici Igiaba Scego, Espérance Hakuzwimana e Sabrina Efionayi
le giornaliste Nadeesha Uyangoda e Oiza Q. Obasuyi
la consulente di marketing inclusivo Sambu Buffa
il progetto Colory* fondato da Tia Taylor e gestito sui social da Marianna Kalonda Okassaka*
i video del progetto Champs per prevenire e affrontare l’afrofobia in Italia.
Se leggi in spagnolo, oltre alla newsletter e ai libri di Desirée Bela-Lobedde che ti citavo in apertura, ti consiglio anche:
Hija de inmigrantes (ed. Nube de Tinta), il primo romanzo di Safia El Aaddam, filologa e attivista antirazzista di origine amazigh. È la storia di Lunja, una bambina amazigh che vive in un paesino della Catalogna con la sua famiglia. Racconta con tenerezza e precisione le conseguenze familiari della diaspora amazigh, l’eredità della migrazione e il significato dell’essere etichettata per sempre “figlia di immigrati”.
La rubrica dell’autrice e illustratrice Quan Zhou per il quotidiano online ElDiario: da non perdere se vuoi capire meglio alcune delle questioni centrali del discorso antirazzista e del femminismo intersezionale in Spagna.
Mini glossario della comunicazione inclusiva
Razzializzazione
Per spiegare questa espressione ricorro a un breve estratto dal capitolo 3 di Scrivi e lascia vivere che cita il volume 1 del saggio Antirazzismo e scuole:
L’aggettivo razzializzato, nato nell’ambito della sociologia, identifica le persone che ricevono un trattamento oppressivo o discriminatorio per via della categoria razziale assegnata loro dalla società:
«Nella sociologia contemporanea, si preferisce usare il termine razzializzazione (Frisina 2020, pp. 47-50) per mettere in luce le circostanze storiche e politiche che riproducono le gerarchie razziali e si cerca di spostare l’attenzione da coloro che vengono definiti razzialmente (i “neri”, gli “zingari”...) ai gruppi sociali più potenti, cioè ai razzializzatori, coloro che traggono vantaggi simbolici e materiali dai processi di gerarchizzazione umana. Il privilegio è per lo più invisibile agli occhi dei privilegiati, che spesso sono inconsapevoli del suo impatto sulle vite proprie e altrui.
La razzializzazione implica l’inferiorizzazione o peggio la de-umanizzazione, la segregazione spaziale, lo sfruttamento economico, la violenza materiale e simbolica nei confronti di soggetti che vengono considerati appartenenti a determinati gruppi e, più o meno esplicitamente, non appartenenti a un noi normativo: i “bianchi” o anche gli italiani (doc, di origine controllata).»
Il volume 1 di Antirazzismo e scuole è disponibile liberamente online: lo hanno curato Annalisa Frisina, Filomena Gaia Farina e Alessio Surian per Padova University Press.
Se preferisci una spiegazione video, ascolta la docente Angelica Pesarini (Professoressa assistente in Italianistica e in Studi su razza, cultura e diaspora presso l’Università di Toronto) che ne parla per l’associazione “Il razzismo è una brutta storia”:
Altro tema su altri schermi
La settimana scorsa ho pubblicato un post su LinkedIn per parlare del mio nuovo cellulare Samsung. No, non per fargli pubblicità, ma per descrivere una pratica ancora comune tra chi progetta esperienze digitali: l’ambigua strategia di chiedere alle persone il loro genere anche quando non ce ne sarebbe motivo (spoiler: raramente c’è un motivo valido per farlo, e la maggior parte delle volte lo si chiede pure male).
Il post è in inglese e ha ricevuto molte risposte e integrazioni interessanti. Se ti occupi di content design e comunicazione inclusiva in senso lato, vai a dare un’occhiata.
Se poi vuoi approfondire il tema, su Caipiroska Lab trovi il mio corso online ad hoc: si chiama Tecniche di UX Writing inclusivo e ti insegna a scrivere (e ad analizzare) testi e microtesti con una prospettiva di genere.
Per questo lunedì ho finito, ci sentiamo tra due settimane!
Se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza problemi.
Ti basta rispondere a questa email.
Alice