#41 Come parla una città accessibile?
Di spazi comuni e nuove geografie da vivere con una prospettiva femminista.
La settimana scorsa ho ripreso le lezioni con il mio gruppo di canto. Ho iniziato lo scorso autunno, decisa a mettere subito in pratica uno dei propositi post burnout: “trova attività nuove che ti facciano respirare e fiorire i pensieri”.
E così sono andata sul sito dei corsi organizzati dai Centri Civici di Barcellona e ho spulciato l’offerta in attesa di un’ispirazione. I criteri di scelta erano pochi ma determinati. Cercavo un’attività:
slegata dal mio ambito professionale,
da svolgere in gruppo,
e che non mi generasse ansia da prestazione.
Ed eccolo lì: il corso di “Tecniche vocali applicate al canto”, impartito dalla cantante Ana Rossi, mi stava aspettando. Sono andata al Centro Civico e mi sono iscritta.
La rete dei Centri Civici di Barcellona è una delle cose che mi ha fatto innamorare della vita a Barcellona. Si tratta di una rete di 52 strutture culturali presenti in ogni quartiere della città: organizzano corsi di ogni tipo (dalla cucina alla danza al teatro), mostre, concerti e incontri con artisti o altre persone esperte dei temi più disparati. E tutto a prezzi calmierati e accessibili, in modo che il maggior numero di persone possa partecipare.
Qualche settimana fa, mentre cercavo il numero di telefono per chiedere conferma della data di inizio delle lezioni, mi sono soffermata su questa frase trovata nel footer del sito web del Centro Civico:
La frase è in catalano e dice: “Centro adattato alle persone con mobilità ridotta e dotato di sistema a induzione magnetica”.
I sistemi a induzione magnetica, chiamati anche loop a induzione, permettono alle persone sorde o ipoacusiche con impianto cocleare o apparecchio acustico (dotato di funzione “T-coil”) di ricevere i suoni in modo nitido e intellegibile. È una tecnologia che si può installare nei cinema, negli auditorium, negli aeroporti o nelle stazioni, per rendere i suoni più accessibili.
Purtroppo, da quello che leggo nel sito dell’Associazione Ligure Ipoudenti, pur trattandosi di una tecnologia già datata, nelle città italiane non è molto diffusa.
Da questo punto di vista, invece, Barcellona prosegue su un cammino in cui la cura degli spazi accessibili è un ingrediente fondamentale dello sviluppo cittadino.
Tra le risorse che l’Ayuntamiento di Barcellona mette a disposizione della cittadinanza, c’è anche la guida Barcelona Accesible: è un portale che raccoglie informazioni sulle risorse, gli aiuti e i benefici pensati per le persone con disabilità che vivono in città.
Anche questo approccio all’accessibilità contribuisce a rafforzare la reputazione di Barcellona come città femminista.
E non è un’etichetta che le sto attribuendo io ora: è proprio il brand cittadino su cui lavora da anni la giunta comunale guidata dalla sindaca Ada Colau.
Ne avevo parlato anche due anni fa, nel numero 5 di Ojalá:
Città femminista, ma in che senso?
C’è un saggio del 2019 che spiega in maniera perfetta cosa si intende per città femminista: Feminist City. Claiming Space in a Man-Made World, opera di Leslie Kern, docente e ricercatrice canadese esperta di geografia, gentrificazione e studi di genere.
In italiano lo trovi come La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini (edito da Treccani Libri e tradotto da Natascia Pennacchietti).
È uno dei libri che più ho sottolineato negli ultimi mesi.
Mi è piaciuto perché descrive esempi concreti di urbanistica moderna che complicano la vita di tutte le persone con corpi e identità oppresse o dissidenti. Ma contiene anche molta speranza, perché — proprio grazie al lavoro di ricercatrici e attiviste come Kern — sempre più movimenti sociali si ispirano a un ideale di città femminista. Traduco da pagina 175 della versione originale (Verso edizioni):
Questi movimenti e molti altri stanno già mettendo in atto visioni della città femminista. Sono visioni che ci chiedono di immaginare nuovi modi di organizzare il lavoro retribuito, il lavoro di cura e la riproduzione sociale. È importante notare che non vedono la famiglia nucleare eterosessuale come base predefinita per organizzare queste relazioni. Non si affidano alla famiglia o agli uomini come fonti di protezione economica e fisica per le donne, pur riconoscendo l'importanza di permettere alle persone di creare e alimentare le proprie strutture di parentela.
Sono visioni che riconoscono l'autonomia delle donne, ma anche il loro legame con la rete di amicizie, la comunità e i movimenti sociali. Incoraggiano alla solidarietà tutte le persone che vogliono sentirsi sicure in casa, per strada, nei bagni, a lavoro e a scuola. Riconoscono le intersezioni tra le questioni di genere e i molteplici altri sistemi di privilegio e oppressione; rifiutano un femminismo in cui l'unico indicatore di successo sia l'innalzamento dello status delle donne bianche privilegiate.La città femminista non ha bisogno di planimetrie per diventare reale.
Non serve unə superprogettista femminista che demolisca tutto e ricominci da capo. Però, una volta che iniziamo a vedere in che modo le nostre città sono impostate per sostenere una particolare struttura organizzativa della società – attraverso il genere, la razza, la sessualità e altri fattori – possiamo cominciare a cercare nuove possibilità.La città femminista è un esperimento in divenire per vivere in modo diverso, migliore e più giusto nell’ecosistema urbano.
E a proposito di ripensare la convivenza negli spazi urbani, anche i trasporti pubblici — e i comportamenti che teniamo a bordo — sono chiamati in causa.
Mi ci ha fatto ripensare questo tweet di Paola Masuzzo, pubblicato la settimana scorsa, che denuncia un’abitudine prettamente maschile e diffusa sui trasporti pubblici a ogni latitudine: il manspreading.
Per tradurre in italiano manspreading mi ispiro al titolo di un articolo pubblicato l’anno scorso da Intersezionale che parla di stravaccamento maschile ingiustificato:
Si tratta di un termine inglese e si riferisce alla pratica degli uomini seduti nei trasporti pubblici con le gambe divaricate, coprendo così più di un posto.
[…]L’invasione machista dello spazio, fisico ma anche emotivo, altrui è diventata tema di dibattito, al punto che in alcune città del mondo si sono attivati divieti ad hoc per rimettere, letteralmente, i maschi al loro posto.
E infatti, nel 2017, anche la compagnia di trasporti pubblici di Barcellona (TMB) aveva inserito il manspreading nella campagna Viaja con Karma, volta a sensibilizzare la cittadinanza sulle cattive abitudini nell’uso dei mezzi pubblici:
Il testo in fondo al poster dice:
Quando stai seduto rispetta lo spazio altrui. Il rispetto e la buona convivenza ci fanno viaggiare meglio.
Una canzone: Sad Femme Club
Due giorni fa, mentre lasciavo che l’algoritmo di Spotify mi consigliasse canzoni legate a una keyword che non rivelerò qui (posso solo dire che ero molto arrabbiata), ho scoperto Kimmortal – artista canadese queer di origini filippine – e la sua canzone Sad Femme Club.
Inizia così, sono rimasta folgorata:
Dear Goddess, give me patience, tired of trynna to explain
I've got zero tolerance when they fuck with my sacred space
(Cara Dea, dammi la pazienza, non ne posso più di spiegarlo
Ho tolleranza zero per chi rompe e invade il mio spazio sacro)
Ti invito a leggere anche il resto del testo, è una poesia esplosiva in cui si riconosceranno tutte le persone che hanno dovuto sorridere, annuire, contenersi a comando per non essere licenziate/rifiutate/schernite (ma che — ça va sans dire — non hanno più intenzione di farlo):
If I lose my shit right now
Will I just be dismissed right now?
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A presto,
Alice
Ogni volta imparo qualcosa di nuovo leggendoti: non li conoscevo i sistemi a induzione magnetica per persone sorde o ipoacusiche. E grazie anche per la dritta sul libro di Leslie Kern, subito segnato!