Tutti i miei sbagli 🤦♀️
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Ciao!
Sono Alice e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Non ho ancora un buon rapporto con i miei sbagli, ci sto lavorando. Non so tu, ma io sono cresciuta in un contesto in cui gli errori venivano segnalati con la matita blu, quelli molto gravi con la matita rossa.
Stai sbagliando è probabilmente una delle frasi che mi sono sentita rivolgere più spesso, insieme a stai calma e ma non ti si può dire niente. 😑
Finora ho accumulato miriadi di sottolineature rosse e blu (ok, molte erano anche fuori luogo, ma questa è un’altra storia); allo stesso tempo, il numero di cose che ho imparato dai miei errori pareggia un po’ il conto.
Da quando ho iniziato a lavorare con il linguaggio inclusivo, spesso sento una tremenda paura di sbagliare.
Sbagliare per molti motivi.
Perché non ho una laurea in traduzione, e allora a che titolo parlo di localizzazione?
Perché sono una donna cis, bianca, abile, e allora a che titolo parlo di linguaggio di genere, razzista o abilista?
Mi considero un'alleata di tutte le istanze che stanno dietro la scelta di usare un linguaggio inclusivo, sia nel personale che nel professionale.
Questo fa di me una persona titolata a parlarne pubblicamente?
Il fatto che io ne parli e che venga invitata a parlare di comunicazione inclusiva, fa di me una che non sta passando il microfono a chi vive in prima persona certe discriminazioni linguistiche?
Quest’ultima è una delle mie paure più grandi.
A fine gennaio ho pubblicato delle storie su Instagram chiedendo alle persone che mi seguono di dirmi qual è la resistenza più grande che sentono quando si cimentano con il linguaggio inclusivo.
Più del 50% delle 270 risposte che sono arrivate hanno nominato la paura di sbagliare e finire per dire qualcosa di offensivo.
Non è un campione statistico rilevante, lo so. Anzi, si tratta di un risultato quasi sbilanciato, visto che chi partecipa a questi dialoghi su Instagram fa parte di una bolla di persone interessate al linguaggio inclusivo.
Ma forse è questo il punto che rende quelle risposte interessanti.
Più ci informiamo, più ci proviamo, più abbiamo paura di sbagliare.
E questo ci stimola a volerne sapere di più.
Se oggi sbaglio, domani studierò per correggere quell’errore e dopodomani farò meglio.
Facile a dirsi.
Qualche sera fa ho partecipato a una conversazione poi diventata podcast sull’intersezione tra parole, inclusività e design. È stato un incontro molto interessante e con belle domande; mi sono divertita, pur essendo stanca dopo una settimana molto dura.
Quando però ho ascoltato il podcast online, mi sono sentita pronunciare frasi che avrei potuto formulare in modo molto più corretto e inclusivo.
Ad esempio, parlando di grandi cantonate da parte dei brand, ho riportato l’esperienza con il braccialetto FitBit raccontata da Ada Powers, una donna trans che lavora come UX writer: peccato che per farlo ho usato, tra altre espressioni che non mi sono piaciute, anche questa: “ora è una donna a tutti gli effetti”.
Sono quasi caduta dal divano mentre mi si gelavano le budella.
Che cosa mai vorrà dire essere donna a tutti gli effetti?
Quali sono questi presunti “effetti”? E chi li decide?
Quanto è arbitraria ed esclusiva questa espressione?
A cosa stavo pensando quando l’ho detta?
Insomma, sono entrata in modalità auto-flagellazione.
Ti risparmio i pensieri auto-sabotanti che ho affrontato nelle ore seguenti all’ascolto, ma ti lascio una considerazione in cui credo molto: l’abitudine a un linguaggio permeato di binarismo di genere, che sistematicamente esclude le soggettività delle persone trans, è così radicata nel nostro modo di parlare che ci vuole poco per farla emergere insieme a tutti i nostri bias inconsci.
Dopo una notte turbolenta, a colazione ne ho parlato con il mio compagno. Con la sua solita flemma, mentre zuccherava il cafe con leche, mi ha detto:
“Sì, ti sei espressa male, ormai è andata così. Però non è solo questione di accettare i tuoi errori ma anche di adattarti a loro e correggerli. Gli errori sono cosa del passato; quando li stiamo facendo non ci rendiamo conto che sono tali. E se ce ne rendiamo conto e perseveriamo allora non sono errori, sono pendejadas.”
(Se conosci lo spagnolo e ti interessa capire meglio l’origine della parola pendejo così comune in Messico, patria del mio compagno, qui ti lascio una pagina con tutti i dettagli).
Insomma, stavo parlando di cantonate e ne ho imboccata io una bella grande...Isn't it ironic, don't you think?
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Cis e cisgender
Poco fa ho scritto “sono una donna cis, bianca, abile”.
Cis è un prefisso di origine latina, «di qua da», in contrapposizione al prefisso trans, «al di là, attraverso». Quando lo si usa per parlare di identità di genere, cis è l’abbreviazione di "cisgender".
Traduco la definizione di Nonbinary Wiki:
«Una persona cisgender è una persona che non è transgender, nel senso che la sua identità di genere corrisponde al genere che le è stato assegnato alla nascita.
Essere cisgender è uno dei possibili aspetti dell'identità di genere di una persona.
Le donne cisgender sono donne a cui è stato assegnato il sesso femminile alla nascita (o sono nate con alcune caratteristiche intersessuali), e che hanno un'identità di genere femminile.
Gli uomini cisgender sono uomini a cui è stato assegnato il sesso maschile alla nascita (o sono nati con alcune caratteristiche intersessuali), e che hanno un'identità di genere maschile.»
Stiamo quindi parlando di autopercezione e autodeterminazione della nostra identità di genere.
Io, Alice, sono una donna cis perché il genere cui mi sento di appartenere (donna) coincide con il sesso che mi è stato assegnato alla nascita (femminile).
La nostra autopercezione è ciò che ci rende chi siamo, ed è per questo che tutte le autopercezioni, siano esse cis o trans, sono valide e importanti.
Per saperne di più, ti consiglio di leggere questo bell’articolo che risponde all’annosa domanda: qual è l’essenza incontrovertibile dell’essere uomo o donna?
Ci trovi anche un interessante approfondimento sull’intersessualità, visto che ho citato questo termine nella traduzione qui sopra.
Un buon esempio di comunicazione inclusiva:
La scia delle email e newsletter a tema 8 marzo è ancora calda mentre scrivo.
Lunedì scorso ho cercato di stare sui social il meno possibile, perché la retorica che ruota intorno alla Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne mi affatica.
Però ho ricevuto questa email da Holaluz, la mia compagnia elettrica, e credo sia un buon esempio di comunicazione aziendale:
Te la traduco e ti do un po’ di contesto:
«La Giornata delle Donne era ieri. E l’altro ieri. E l'altro ancora. Lo sarà anche domani. Perché l’uguaglianza, il rispetto e le opportunità di crescere non dovrebbero mai dipendere dal genere. Grazie per il tuo aiuto nel cambiare il mondo. Con te, la Rivoluzione dei Tetti non ha un tetto.»
Holaluz è un’azienda con sede a Barcellona che vende elettricità di origine 100% rinnovabile (quindi solare, idraulica, eolica, biomassa o biogas). Se vuoi, ti offre la possibilità di installare dei pannelli solari sul tetto di casa e contribuire alla produzione di energia verde sia per te che per la sua rete clienti: questa sua campagna si chiama Revolución de los Tejados (la Rivoluzione dei Tetti).
Perché mi è piaciuta questa comunicazione:
Perché non fa retorica ma mostra fatti e azioni quotidiane per ridurre la disparità di genere (confermate anche da alcune persone che conosco e che lavorano nell’azienda).
Come si legge nei cartelli dell’immagine qui sopra, sin dalla sua nascita Holaluz ha previsto delle azioni per ridurre le disparità al suo interno:
- la rappresentanza di genere del personale è paritetica a tutti i livelli, includendo il consiglio direttivo;
- la retribuzione tra uomini e donne nelle stesse posizioni è la stessa, senza differenze;
- esistono delle quote di assunzione per assicurare la parità di genere nei dipartimenti più tecnici;
- la conciliazione famiglia-lavoro è incoraggiata grazie a orari flessibili e a un asilo nido nella sede degli uffici;
- ad aprile 2019, l’azienda ha applicato immediatamente il decreto legge spagnolo sul congedo parentale, estendendo il congedo retribuito di paternità a 16 settimane (lo stesso che per le madri). In Spagna, il congedo di paternità di 16 settimane è entrato in vigore solo da poco, il 1 gennaio 2021.
Questo per dire che le buone campagne di comunicazione aziendale per l’8 marzo hanno senso solo quando riflettono un filosofia portata avanti tutto l’anno, tutti gli anni.
In caso contrario, molto meglio il silenzio.
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice