#51 Le buone compagnie
Ojalá torna dopo tre mesi di pausa e tanti alti e bassi per parlare di diritto all'aborto e domeniche al cineforum.
Nel mio paesello catalano è finita l’estate, anche se il clima vorrebbe dire il contrario. La mattina c’è spazio per fare colazione ai tavolini all’aperto del bar centrale. La spiaggia delle barche è libera e silenziosa. I chiringuitos sul litorale sono spariti. È ricominciato il cineforum della domenica.
E la settimana scorsa sono andata a vedere Las buenas compañías, film uscito quest’anno e diretto dalla regista catalana Silvia Munt.
La storia, basata su fatti realmente accaduti, racconta di un gruppo di donne di Errenteria (nei Paesi Baschi) che nel 1976 lottarono per ottenere l'approvazione del diritto all'aborto.
Alla fine degli anni ‘70 la Spagna era ancora una dittatura e la regista Silvia Munt, presente alla proiezione del film in sala, ricorda bene cosa significava essere adolescente in quel periodo. I diritti negati, l’aborto come reato, l’impellenza di protestare, di farsi sentire, di dare visibilità alla causa femminista e alla sofferenza delle donne. Ma anche l’urgenza di scoprirsi, di vivere senza sensi di colpa la propria sessualità e le meraviglie della giovinezza.
Sono gli stessi sentimenti che guidano la protagonista de Las buenas compañías: Bea (Alicia Falcó) ha 16 anni e vive con sua madre, che lavora in casa di una famiglia benestante del paese. Bea è parte di un collettivo femminista e, in quell’estate 1976, sta organizzando una protesta per visibilizzare il diritto all'aborto e chiedere l’amnistia per las once de Basauri, le undici donne di Basauri arrestate per aver abortito.
Chi erano le undici donne di Basauri?
Come ricorda un bell’articolo di Publico, quello di Basauri fu un caso storico per la giurisprudenza e il movimento femminista spagnolo, perché diede impulso alla prima legge sull'aborto (approvata poi nel 1985):
Quarant'anni fa, la Corte Suprema annullò una sentenza che aveva assolto diverse donne per aver interrotto volontariamente la gravidanza.
Il nome (ndr. las once de Basauri), uno slogan iconico, era stato scelto dal movimento femminista per dare un volto a tutte le donne costrette ad abortire illegalmente in Spagna e a rischiare per questo la propria vita.
Tutto iniziò quarantasei anni fa, l'8 ottobre 1976, quando la polizia interrogò una donna che era stata denunciata da uno dei suoi parenti per aver praticato un aborto. Le chiesero quali donne avesse aiutato ad abortire. La donna fornì alcuni nomi e il giorno dopo diversi poliziotti in borghese si presentarono a casa delle donne della lista. Le portarono alla stazione di polizia per raccogliere le loro dichiarazioni, o almeno così dissero.
Avevano tra i 19 e i 38 anni. Quasi tutte erano sposate, la maggior parte di loro aveva figli e lavorava in fabbrica. Trascorsero quattro giorni in carcere, poi vennero rilasciate in libertà vigilata, in attesa del processo. Ma non avrebbero mai immaginato di dover aspettare così a lungo, perché il processo durò tre anni.
Un tempo comunque sufficiente per rafforzare il movimento femminista spagnolo. Il processo de las once de Basauri iniziò nel 1979, e le attiviste femministe videro in questo caso l'opportunità di concretizzare la richiesta di una legge che depenalizzasse l’aborto.
Era l'occasione perfetta per portare l'aborto fuori dalla sfera privata e segreta dell’illegalità e portarlo nel dibattito pubblico, sotto gli occhi della società.
Le undici donne divennero un simbolo di lotta riconosciuto in tutta la Spagna, che in quel periodo vide le sue strade popolarsi di proteste. E il film le ricorda con questa potente scena dell’autobus:
Seduta tra gli spalti del piccolo cineteatro del paesello, ho ascoltato la regista Silvia Munt, che nel '76 era appena maggiorenne, parlare del bisogno di raccontare cosa ha significato, per lei e per le sue compagne, quel sentimento di libertà esploso dopo la morte di Franco.
È dal ricordo di quel fermento, ha spiegato, che è nata la sceneggiatura de Las buenas compañías: un riconoscimento al lavoro delle donne femministe dei Paesi Baschi che hanno rischiato tanto negli anni peggiori della repressione franchista, e che ancora oggi continuano a lavorare per i diritti delle donne.
Come Bea, anche Munt è stata una ragazza con la voglia di fuggire dalle imposizioni sociali calvalcando la rabbia e il suo grido interiore contro un sistema oppressore.
Mi sono commossa di fronte a questa storia di solidarietà, di lotta comunitaria e di scoperta del mondo degli adulti che si sviluppa nel corso di una sola estate.
È un’estate, ha precisato Munt, durante la quale Bea cresce socialmente, sperimenta tutto il dolore di vivere la realtà femminile, si innamora per la prima volta; ma è anche quella in cui cambia il suo sguardo nei confronti della madre e passa dal considerarla come una vittima, severa e silenziosa, al vederla come una donna, complessa e intera.
«Los hijos se prestan a las madres por un tiempo y a mi se me acabó mi plazo», dice la madre di Bea in un momento molto toccante del film.
Un diritto da non dare per scontato
In Spagna, l’interruzione volontaria di gravidanza ha smesso di essere reato nel 1985. Fino al 2010, però, era possibile solo in tre casi: grave rischio per la salute fisica o mentale della gestante, stupro e malformazioni del feto.
Io mi sono trasferita in Spagna nel 2012 e mi fa molta impressione pensare che, fino a due anni prima, accedere all’aborto fosse così complicato. Ora l’interruzione volontaria di gravidanza è una pratica libera e possibile durante le prime 14 settimane di gravidanza. L’ultima riforma del 2022, inoltre, ha introdotto delle importanti novità: ha eliminato l'obbligo per le persone di 16 e 17 anni di avere il permesso dei genitori per abortire, ha abolito i tre giorni di "riflessione" prima dell’intervento e previsto la creazione di registri di obiettori di coscienza per garantire che la maggior parte degli aborti venga effettuata nei centri sanitari pubblici.
In Italia invece l’aborto è stato depenalizzato nel 1978 con la legge 194. L’esistenza della legge, però, non è sufficiente a considerarlo un diritto accessibile a chiunque.
Qualche memo per mantenerci all’erta, sempre:
Aborto sicuro, il ministero della salute continua a non comunicare i dati sull’applicazione della 194, di Donata Columbro per La Stampa:
«L’assenza di informazioni relative alle singole strutture ospedaliere, ai numeri degli obiettori di coscienza, alle modalità di svolgimento delle procedure di interruzione volontaria di gravidanza e alle eventuali limitazioni che ne impediscono l'accesso, relativi alla singola struttura, rappresenta un grave ostacolo alla tutela dei diritti delle donne e all'esercizio della loro autonomia decisionale», sostengono le attiviste della campagna Libera di abortire.
Libera di sapere, libera di abortire, il vademecum sui diritti, le procedure e le modalità per accedere all’interruzione volontaria di gravidanza in Italia. Segnalo in particolare la sezione Cosa non è lecito subire, di cui fa parte anche questo punto: «È illegale che tutti i medici di un ospedale siano obiettori.»
Anche se nella struttura alla quale ti rivolgerai ci sono medici obiettori, l’ospedale è comunque tenuto a prendere in carico la tua scelta di abortire. Segnala a Obiezione Respinta o LAIGA194 la mancanza di personale non obiettore in un intero ospedale. L’obiezione di coscienza è diritto dei singoli, non può essere esercitata da intere strutture.
Parlare di aborto senza colpa e vergogna, un articolo del 2021 di Claudia Torrisi per Valigia Blu che sottolinea l’importanza di allargare la narrazione sull’aborto:
A febbraio di quest’anno il volto e il nome di Alice Merlo, attivista genovese di 27 anni, sono comparsi sui manifesti della campagna dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (UAAR) in favore dell’aborto farmacologico, definito una “una scoperta scientifica meravigliosa per la salute della donna”. Pochi mesi prima, a settembre, Merlo aveva abortito con la RU486 all’ospedale San Martino di Genova e aveva deciso di raccontare su Facebook quello che aveva vissuto utilizzando parole come “serenità” e “gratitudine”.
[…]
La decisione di interrompere volontariamente una gravidanza (non si sta parlando qui di aborti spontanei) non è un monolite uguale per tutte le persone: ce ne sono alcune che affrontano l’aborto con grande sofferenza, specialmente quando si tratta di IVG cosiddette terapeutiche, ossia oltre i 90 giorni, che riguardano gravidanze cercate e desiderate.
Ce ne sono altre che lo fanno con un altro stato d’animo: non vogliono essere madri, non vogliono esserlo ancora, non vogliono esserlo in quelle particolari circostanze. Ma nel dibattito pubblico non sembra esserci spazio per esperienze diverse - così come dimostra la vicenda di Merlo.«Credo sia importante parlare del fatto che parte di chi difende la 194 e il diritto alla libertà di scelta delle donne lo fa a certe condizioni, ossia che tu parli del tuo aborto solo in determinati termini: come di un trauma, come di una cosa che per te non è stata facile, come di una cosa sofferta, e come di una colpa. Alla fine sembra che il concetto sia che è colpa tua che sei rimasta incinta», dice Merlo.
IVG, ho abortito e sto benissimo è la piattaforma e canale Instagram fondato nel 2018 dalla psicologa e psicoterapeuta clinica Federica Di Martino. Come raccontava l’anno scorso a Roberta Cavaglià in un’intervista per Rolling Stones:
L’accesso all’aborto in Italia rimane molto difficile – se non impossibile – per le persone che vivono nelle regioni dove il tasso di obiettori di coscienza è più alto, ed è ulteriormente penalizzato dalla mancanza di informazioni chiare e tempestive.
A questi problemi si aggiunge poi lo stigma: nonostante sia un diritto, l’aborto viene sistematicamente considerato e raccontato una fonte di dolore, sofferenza e trauma per chi lo sceglie. Ma questa narrazione rispecchia fino in fondo la realtà?«Ognuno può vivere l’aborto come vuole, ma nessuno ha diritto di dirti come farlo», afferma la psicologa e psicoterapeuta clinica Federica Di Martino, che nel 2018 ha fondato la piattaforma “IVG ho abortito e sto benissimo”. «L’ispirazione per questo progetto nasce dalla piattaforma francese IVG : je vais bien, merci, anch’essa nata per mettere in discussione la narrazione “unica” dell’aborto da cui fatichiamo a uscire», spiega Di Martino, che in questi anni ha raccolto e pubblicato sui social network migliaia di storie di persone che hanno abortito ispirandosi alla pratica dell’autocoscienza dei gruppi femministi degli anni Settanta.
The impossible pill è la campagna promossa da Medici del Mondo Italia per denunciare le difficoltà di accesso all’aborto farmacologico, un diritto umano ancora troppo spesso ignorato. L’attrice comica Laura Formenti ha attraversato l’Italia dalla Sicilia fino alla cima del Monte Bianco per una “missione impossibile”: trovare la pillola RU486.
Per questa settimana chiudo qui.
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Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Cuidate mucho,
Alice
Eri mancata.
Che bella storia per tornare a leggerti (e grazie per la menzione!)