Siamo isole 🐚
#3
Ciao!
Sono Alice e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Ho pensato a come iniziare questa newsletter mentre stavo accovacciata nel buio della cabina 9003 della Grimaldi Roma, unico mezzo di trasporto che in questi tempi pandemici unisce direttamente Barcellona alla Sardegna.
Non so se hai mai preso un traghetto in una notte ventosa; se ricordi quella sensazione di risucchio ondoso che finisce per travolgere anche il tuo corpo, il lettino che diventa l’unico punto saldo mentre tutto attorno a te scricchiola e avanza rollando.
Pensare alle parole di questa newsletter è stata tra le ancore di quella notte infinita, intrisa di dormiveglia e pensieri pesanti. Era da tantissimo che non viaggiavo da sola e, in tutta sincerità, non avevo affatto voglia di tornare a farlo così, con i macigni sul cuore.
Ma è andata, ho passato 13 ore al buio, ascoltato le onde, i cigolii delle porte, i passi sconosciuti nel corridoio, gli annunci gracchianti di apertura del salone ristorante.
E poi ho messo piede a Porto Torres, di nuovo in Sardegna dopo 8 mesi.
Una questione di accessibilità.
Chi nasce sull’isola ci mette poco a capirlo: vivere e crescere in Sardegna accelera il processo di realizzazione dei propri limiti. È una questione di geografia e ce lo dicono appena siamo in grado di recepire il concetto.
Sei su un’isola, il mare è il tuo primo limite.
Puoi iniziare a camminare senza meta, ma presto la terra finisce e il mare ti ferma.
Puoi allora decidere di attraversare il mare con un biglietto in mano ma devi pensarci bene: per tornare potresti dover affrontare un viaggio costoso, tortuoso, a volte proprio impossibile.
Insomma, quando cresci in Sardegna non puoi fare a meno di assorbire l’idea dell’(in)accessibilità.
Se ci si mette di mezzo anche la burocrazia, di male in peggio.
Viaggiare dalla Spagna verso la Sardegna di questi tempi è piuttosto complicato. Non esistono voli diretti e il mare si può attraversare solo due volte alla settimana via traghetto. E poi ci sono il tampone da fare 48 ora prima di partire, una serie di documenti da compilare e stampare, la registrazione obbligatoria su un’app regionale che a volte funziona e a volte no.
Al posto dell’app ho usato il modulo equivalente nella pagina web della Regione Sardegna dedicata alla campagna Sardegna Sicura. Tra i dati da inserire c’è anche l’autocertificazione relativa all’esecuzione del tampone, che io ho fatto 24 ore prima della partenza.
L’autocertificazione è formulata con queste parole:
Presenterò, all'atto dello sbarco, l'esito di un test molecolare o antigenico, eseguito non oltre le 48 ore dalla partenza, che abbia dato esito negativo per covid-19;
Ho effettuato test con esito negativo 48 ore prima dell'arrivo in Sardegna;
Sono un soggetto non vaccinato e non ho eseguito il tampone prima dell'arrivo in Sardegna;
Mi è stato somministrato il vaccino in duplice dose.
Quando mi sono trovata di fronte a queste opzioni ho tentennato; ero molto in ansia, di certo non al massimo della mia lucidità. E proprio per questo, prima di selezionare la risposta, ho letto e riletto varie volte.
Ho scartato la terza e la quarta opzione perché non sono vaccinata e avevo già eseguito il tampone 24 prima della partenza della nave.
Sono rimaste la prima e la seconda opzione, ma ci ho messo lunghi minuti per capire la differenza tra le due (e ancora adesso non sono sicura di esserci riuscita).
Selezionando la prima opzione dichiaravo di poter presentare, all’atto dello sbarco in Sardegna, un test eseguito “non oltre le 48 ore dalla partenza”.
(48 ore prima della partenza? O 48 ore calcolate dal momento della partenza? Ma mica si possono fare i tamponi una volta che si è in viaggio… 🤯)
Selezionando la seconda opzione, invece, dichiaravo di aver effettuato un test “48 ore prima dell’arrivo in Sardegna”, senza alcuna indicazione del contesto in cui lo avrei presentato.
Onestamente, per me la prima e la seconda opzione suonano uguali, entrambe mal scritte ma potenzialmente adatte per descrivere la mia situazione.
A naso, ho selezionato la prima risposta. Allo sbarco nessunə mi ha detto nulla, quindi suppongono sia stata la scelta corretta. 🤷🏻♀️
Un’esperienza frustrante potenziata da un linguaggio poco accessibile.
Ora che lavoro con il linguaggio inclusivo, parlare di accessibilità mi viene quasi spontaneo. Non è più una questione solo geografica ma anche un modo di vivere e lavorare sul web.
Cosa si intende per accessibilità web?
L'accessibilità web è una pratica inclusiva che assicura a qualunque persona di poter navigare su internet senza barriere. Sul web potresti vederla girare anche con il nome inglese accessibility e con la sua abbreviazione a11y (perché ci sono 11 caratteri tra la a iniziale e la y finale).
L’accessibilità web è la pratica grazie a cui ricordiamo di verificare se i contenuti digitali che produciamo sono accessibili a chiunque.
Un contenuto digitale è accessibile quando è fruibile a prescindere dalle competenze digitali, dalle condizioni fisiche, dal grado di alfabetizzazione, dal linguaggio o dalle sfide cognitive delle persone che lo usano.
Si parla di accessibilità web soprattutto in relazione alle condizioni di disabilità, ma la portata del discorso è molto più ampia.
Le linee guida sul design inclusivo di Microsoft spiegano bene perché e in che modo si possono creare esperienze digitali accessibili per chiunque.
In queste linee guida, Microsoft usa un concetto molto potente, “Solve for one, extend to many”: lavorare a soluzioni tecnologiche per una persona con determinate necessità significa rispondere a necessità universali, estensibili poi a migliaia di altre persone.
Perché le condizioni che viviamo a livello fisico e cognitivo non rimangono mai le stesse per sempre. È il concetto del Persona Spectrum: in qualsiasi momento della nostra vita possiamo sperimentare una disabilità, sia essa permanente o temporanea, o una limitazione delle nostre capacità legata a una situazione specifica.
Eccone una rappresentazione:
Il modello di Persona Spectrum ideato dal team Microsoft
Questo discorso funziona per i prodotti digitali ma, se ci pensi bene, anche per le parole che scriviamo o pronunciamo.
Quando scegliamo il linguaggio inclusivo, stiamo supportando le istanze di gruppi di persone marginalizzate e aiutando potenzialmente migliaia di altri individui a fare altrettanto, in una catena virtuosa fondata sul diritto di esistere.
Ecco perché, secondo me, accessibilità e inclusione vanno a braccetto.
Una situazione come quella che ti ho descritto sopra a proposito dell’autodichiarazione per la Regione Sardegna, non è inclusiva perché usa un linguaggio arzigogolato, non immediato.
Genera ansia e paura di sbagliare in un momento delicato in cui, come utente che si prepara a un viaggio per motivi familiari durante un’epoca di pandemia, sono già ansiosa di mio.
E se anche non fossi ansiosa per il viaggio, potrei essere una persona poco avvezza a compilare moduli online, una persona con problemi alla vista o con una qualche difficoltà cognitiva o linguistica che rende questa esperienza digitale decisamente frustrante.
Come scrivono Valentina Di Michele e Andrea Fiacchi in “Emotion Driven Design. Progettare contenuti per interfacce in sintonia con le persone” (Apogeo Editore):
«Sperare che gli utenti capiscano quello che non spieghiamo è sperare in una somiglianza sociale e culturale che è di per sé una barriera d’ingresso.
L’unica garanzia che ci dà la lingua disonesta è che gli utenti che avranno superato la barriera somiglino al nostro team.
Restando solo in Italia e solo nel digitale, la lingua disonesta domina nei siti web della Pubblica Amministrazione, che ha però il compito di rappresentare e offrire servizi a tutti i cittadini.»
Ti risparmio le considerazioni sul resto del modulo, sia in termini di formato che di usabilità, o sull’app Sardegna Sicura a cui non sono ancora riuscita a registrarmi.
Se l’accessibilità web è composta di buone pratiche di cui si parla ormai da qualche decennio, questo non significa che siano tutte universalmente adottate.
Purtroppo, nel 2021 vediamo ancora esplodere casi di successo fondati su prodotti non accessibili ed esclusivi.
Sì, sto pensando a ClubHouse.
Secondo la società di analisi Apptopia, l’app è stata scaricata più di 4,7 milioni di volte dalla sua introduzione ad aprile 2020.
Peccato che ClubHouse escluda di default diverse categorie di persone:
Persone con difficoltà uditive, che potrebbero avere problemi a seguire conversazioni audio senza una trascrizione in diretta;
Persone con difficoltà visive, che potrebbero avere difficoltà a orientarsi tra i pulsanti e le schermate dell’app difficilmente navigabili tramite lettori di schermo;
Persone con difficoltà cognitive, perché la curva di apprendimento per usare l’app è piuttosto ripida.
Pare proprio che ClubHouse sia stata sviluppata con una certa noncuranza dei principi dell’accessibilità digitale. A me, ti dico la verità, solo l’idea dà l’orticaria.
ClubHouse è uno degli ultimi sfacciati esempi, ma non è certo l’unico social network che fallisce sotto questo aspetto.
Lo hanno spiegato benissimo Chiara Pennetta e Alessandro Melina durante una diretta IG intitolata “Social Media e sordità”. La trovi su YouTube, anche sottotitolata.
Gli esempi di cui parlano Chiara e Alessandro sono numerosi, e quasi nessun social network viene promosso a pieni voti all’esame di accessibilità.
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Visto che seguo da un po’ il suo lavoro, ho chiesto a Chiara di partecipare a questo numero di Ojalá. Lei è stata gentilissima e ha preparato diversi contenuti super interessanti che ti svelerò piano piano, nel corso delle prossime settimane.
Chiara Pennetta è laureata in Lettere Classiche e specializzata in didattica dell’italiano come lingua straniera. È ipoacusica da quando era piccola, e ha portato una protesi acustica fino al 2019, quando si è sottoposta al primo intervento di impianto cocleare, seguito dal secondo nel 2020. L’ho conosciuta grazie al suo lavoro di hearing loss advocate, cioè di divulgazione sui temi legati alla sordità (ne parla sia su Instagram che sulla sua pagina Facebook). Con i suoi contenuti cerca di combattere gli stereotipi e i pregiudizi sulla sordità, e di aiutare le persone sorde a non vergognarsi mai di esserlo.
Oggi partiamo con il primo argomento: come parlare di sordità senza fare errori.
Lascio la tastiera a lei!
፨
Molti dei termini che si usano per riferirsi alle persone con sordità pongono l’accento sulla mancanza, sulla privazione e sulla lesione dell’udito. Per questo, ai fini di un linguaggio rispettoso e inclusivo, sono da evitare: audioprivo, audioleso, minorato dell’udito.
Audioleso, in particolare, pone l’accento sulla lesione: la persona diventa menomata, incompleta, “rotta”.
Anche l’espressione non udente, a lungo considerata più politicamente corretta, ancora una volta si serve del linguaggio negativo per riferirsi a una persona definendola in base a ciò che non è, a ciò che non ha. Evitiamola.
Di sordomuto tanto si è discusso: il termine è ora considerato errato non solo dal punto di vista del politicamente corretto, ma anche da quello medico-scientifico. Le persone sorde (salvo rare eccezioni) non presentano alcuna compromissione dell’apparato fonatorio e sono in grado di produrre suoni.
Tuttavia, la conditio sine qua non per l’apprendimento del linguaggio è l'udito: possiamo riprodurre correttamente solo i suoni che sentiamo bene.
Pertanto, le persone sorde che non parlano, non lo fanno perché hanno una sordità precedente all’acquisizione del linguaggio (sordità preverbale), e non hanno recuperato l’udito e la parola tramite ausili uditivi, riabilitazione linguistica e logopedia.
In Italia, il termine sordomuto è stato sostituito da sordo in tutte le disposizioni legislative vigenti nel 2006 (L. 20 febbraio 2006, n. 95).
Sordo è, appunto, il termine preferito rispetto a quelli sopracitati per maggiore accuratezza scientifica e per la possibilità di riferirsi a una persona a partire da una sua caratteristica e non da una sua mancanza (linguaggio positivo).
Come fa notare Oliver Sacks in “Vedere voci” (uno dei libri più celebri sul tema), però:
«Il termine sordo è vago, o meglio, è così generico che non permette di distinguere i moltissimi gradi della sordità, gradi che hanno un'importanza qualitativa e perfino esistenziale».
Infatti, alcune persone che hanno una perdita uditiva lieve, e/o compensata tramite ausili uditivi, preferiscono definirsi ipoacusiche (o ipoudenti; cfr. l’inglese deaf vs. hard of hearing).
Come sinonimo di ipoacusico è talvolta ancora utilizzato sordastro, anche se molte persone lo evitano per la sfumatura peggiorativa e spregiativa del suffisso -astro.
Ricordiamo, inoltre, che la sordità non è una malattia. Dunque, cerchiamo di non dire che una persona “soffre di ipoacusia” o “è affettə da ipoacusia/sordità”. Anche espressioni come “ha messo l’impianto cocleare ed è guaritə” sono da evitare.
I termini più adatti per parlare di persone con difficoltà uditive sono, quindi, persone sorde e persone ipoacusiche o ipoudenti.
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice