Mi piacciono le serie tv.
Come per i libri, scelgo quali guardare in base all'umore e al momento della giornata.
In questo periodo la serie tv dell'ora di pranzo è Grace and Frankie: una sitcom leggera e simpatica, con due protagoniste super. Ci trovo sempre un motivo per ridere e uno per riflettere.
La conosci?
Parla di Grace (Jane Fonda) e Frankie (Lily Tomlin), due donne benestanti di San Diego, entrambe settantenni. La prima ha un passato da imprenditrice, è una donna organizzata, determinata, pianificatrice, una WASP in piena regola; la seconda insegna pittura in un programma di reintegrazione per ex-detenuti, ha un passato da figlia dei fiori, è creativa, idealista e ama fumare marijuana.
Grace e Frankie sono sposate con due avvocati, soci di uno studio legale e... amanti.
La serie inizia con la rivelazione; Sam e Robert, i due avvocati, confessano alle mogli il loro segreto: sono gay e si amano da vent'anni.
Grace e Frankie, che mai si erano piaciute più di tanto, si trovano a condividere il trauma di un divorzio dopo quarant'anni di matrimonio per l'infedeltà e l'omosessualità dei rispettivi mariti.
Tra loro nasce un sodalizio che sembra fondato sulla disperazione di fronte al castello di bugie che crolla, ma che finisce per trasformarsi in amicizia.
È una storia che affronta con spigliatezza molti argomenti importanti.
L'amicizia tra due donne con valori diversi, anche se figlie della stessa società consumista e privilegiata.
L'omosessualità di due uomini non più giovani che decidono di fare coming out con famiglia, amicizie e colleghз.
La riscoperta della sessualità, delle app di appuntamenti, delle nuove forme di interazione sociale che spesso passano anche da uno schermo.
Ci sono poi diverse situazioni che rappresentano bene il modo in cui le persone più anziane cercano di stare al passo e orientarsi in un mondo tecnologicamente alieno e spesso ostile.
Penso alla frustrazione di Frankie che compra un nuovo computer perché vuole "essere parte della conversazione" sui social.
Il problema è che non ha idea di come accenderlo né di cosa significhi scegliere una password sicura: glielo insegna Grace, in questa scena brillante.
La sua frustrazione raggiunge la vetta quando, decisa a navigare su Internet, chiede aiuto al servizio clienti Apple perché non sa come andare online.
"Ho settant'anni!", finisce per esclamare, esausta.
Ogni episodio vede Grace e Frankie sovvertire gli stereotipi sull'invecchiamento e rifiutare la desessualizzazione con cui vengono quasi sempre rappresentate le persone anziane; ma anche respingere la traiettoria del ruolo convenzionale delle donne da madri a nonne.
Credo sia la sitcom perfetta per puntare i riflettori sull'ageismo, cioè la discriminazione delle persone sulla base dell'età (in questo caso, le più anziane).
Di ageismo, rappresentazione e design inclusivo:
Per un piccolo approfondimento sul termine ageismo e sulla discriminazione generazionale, puoi leggere il paragrafo dedicato del mio articolo "Linguaggio inclusivo: perché non è solo una questione di genere".
Sono tanti i tabù che ruotano intorno all'anzianità, e la sessualità è uno di questi.
Pochi giorni fa, sui muri di Londra sono comparsi i poster della campagna Let's Talk The Joy of Later Life Sex, promossa dall'organizzazione benefica Relate in collaborazione con il fotografo Rankin.
Le gioie del sesso in età avanzata, in bianco e nero, senza pudore.
Mark, una delle persone ritratte, commenta: “C'è questo stereotipo per cui, una volta superata una certa età, tutto ciò che un uomo vuole fare è sedersi davanti alla TV con pipa e pantofole. Dobbiamo iniziare a parlare di intimità e di sesso tra persone anziane”.
Cosa succede, invece, dal punto di vista della tecnologia?
Secondo uno studio di Nielsen Norman Group, le persone con più di 65 anni navigano sul web il 43% più lentamente di quelle tra i 21 e i 55 anni.
Eppure, nella pratica, sono ancora molti i passi da fare per adattare i prodotti digitali alle abitudini di navigazione delle persone anziane (aka, pure io tra una ventina d'anni).
Don Norman, psicologo cognitivo ed esperto di fama mondiale su tutto ciò che è User Experience, lo spiega bene in questo articolo del 2019: I wrote the book on user-friendly design. What I see today horrifies me.
Se in questo momento non hai tempo di leggerlo tutto, ti traduco le ultime righe che ne riassumono il succo più succoso:
Designer e aziende, state offrendo un pessimo servizio a un segmento sempre più corposo della vostra clientela; un segmento che anche voi, un giorno, abiterete.
Non è forse ora di cambiare, di disegnare prodotti che siano funzionali ed eleganti, usabili e accessibili?
Tutti i disturbi che ho descritto e che complicano la vita delle persone anziane riguardano, in fondo, persone di ogni età. I progetti di design che facilitano la vita delle persone anziane spesso offrono lo stesso valore anche alle più giovani. A chiunque, insomma.
Aiutate le persone anziane e vedrete come questo sarà di supporto anche a molte altre, compresi voi stessi, un giorno.
Leggi tutto l'articolo, comunque, ne vale la pena.
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Questa settimana la voce del mini glossario è opera di un'altra delle belle persone che ho scoperto grazie a Instagram: Manuela Stacca.
Classe 1991, laureata in Scienze delle Lettere e della Comunicazione, si occupa di critica televisiva e giornalismo culturale. Ha scritto per Elle Italia, Il Tascabile, GQ Italia, Link Idee per la tv e altre testate online. Sul suo profilo Instagram (@manuela.stacca) parla delle tante cose che la fanno impazzire: serie tv, soprattutto, ma anche film, libri (e Harry Styles), con una speciale attenzione per le opere create, dirette e interpretate da donne.
Manuela è la mia influencer di serie tv preferita; grazie a lei ho scoperto serie indipendenti o di nicchia a cui altrimenti non sarei mai arrivata. Ah, e mi ha confermato di essere anche grande fan di Grace e Frankie – siamo allineate!
Le ho chiesto di commentare un termine che ha molto a che fare con le serie tv, ma anche con buona parte della comunicazione tradizionale (sì, anche quella che vorrebbe spacciarsi come alternativa e dirompente):
Male gaze
(Come si pronuncia?)
Il termine male gaze è stato coniato dalla critica cinematografica e femminista Laura Mulvey nel 1975, in un saggio cardine della Film Feminist Theory dal titolo Piacere visivo e cinema narrativo.
Letteralmente significa “sguardo maschile”, e indica il modo in cui le donne vengono tradizionalmente raffigurate, ovvero come oggetti sessuali, il cui scopo è soddisfare le fantasie e il voyeurismo feticista dell’uomo – eterosessuale e cisgender – che, viceversa, è mostrato come soggetto. Si tratta insomma di una questione di potere, perché «In un mondo ordinato dalla disparità sessuale, il piacere del guardare è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile», come spiega Mulvey.
Pensiamo al famoso film di Alfred Hitchcock La finestra sul cortile e alle lunghe carrellate e panoramiche che seguono lo sguardo del protagonista James Stewart, il quale si sofferma sul viso e sul corpo della meravigliosa Grace Kelly. Pensiamo agli innumerevoli nudi femminili di Game of Thrones, a quelli nei quadri di Renoir o, ancora, a certe pubblicità sessiste che mostrano donne svestite, in pose sexy.
Il male gaze è la conseguenza della società fallocentrica in cui viviamo, e per questo è da sempre onnipresente nel cinema, nella tv, nella letteratura e in tutte le arti visive. Come lo è nella vita di tutti i giorni. Qualche anno fa, lavorando per un articolo sul significato politico dell’assenza delle tasche nei capi femminili, scoprii che Christian Dior disse: «Gli uomini hanno le tasche per metterci le cose, le donne per decorazione». Come a dire che non ne hanno bisogno.
Del resto, per secoli le donne sono state educate a dare grande valore alla bellezza, alla cura del corpo, ancora una volta ad esistere per appagare e compiacere lo sguardo maschile. E spesso è ancora così.
Oggi i nostri abiti hanno più tasche – ma non troppe e mai abbastanza grandi da infilarci per intero un iPhone, a differenza di quelle dei capi maschili –, siamo diventate giornaliste, magistrate, sindache, astronaute. Ci arrabbiamo quando riceviamo commenti non richiesti sul nostro aspetto fisico e quando subiamo molestie per strada. Perché il male gaze è sempre lì, mette a rischio la nostra salute – dai problemi di autostima ai disturbi alimentari –, e influenza il nostro comportamento e persino il nostro rendimento.
Di recente ho scoperto che secondo una ricerca del 2016 dell’Università di Padova, l’oggettificazione del corpo femminile ha un impatto negativo sulle capacità cognitive delle donne: in sostanza, quando è un uomo a osservarci, durante un colloquio, un esame o un servizio fotografico – come nel caso del test effettuato – poi rendiamo meno perché «viene compromesso quello che in inglese viene definito flow, cioè la capacità di immersione totale nel compito che si deve affrontare», ha spiegato la docente di psicologia sociale Mara Cadinu che ha realizzato lo studio.
Il male gaze è così pervasivo da essere considerato universale, il canone.
Ecco perché negli ultimi anni si parla sempre più spesso, nel cinema e nella serialità televisiva, di female gaze – “sguardo femminile” – allo scopo di proporre narrazioni, modelli culturali e personaggi nuovi, che rompano le tradizionali dinamiche di genere.
Penso al film Ritratto della giovane in fiamme, alla serie amatissima Normal People, e alla meno conosciuta ma altrettanto bella I Love Dick – ideata da Joey Soloway, showrunner non-binary.
Sempre a proposito di sguardo maschile e femminile, lo scorso anno è uscita – purtroppo solo in US e in UK – la serie I Hate Suzie: in breve, racconta di un’attrice che perde il controllo della sua vita, dopo che alcune sue foto intime vengono rese pubbliche.
In un episodio, intitolato “Shame”, prima confessa di sentirsi una “troia” e poco dopo decide di passare una mattinata intera a masturbarsi. Rendendosi conto che persino il suo desiderio sessuale è influenzato dal male gaze.
Ma come si fa allora a stanarlo, a decolonizzare i nostri stessi pensieri?
Il fatto è che non basta conoscerlo, sapere cos’è.
E come la protagonista di I Hate Suzie ammetto di non essere riuscita a venirne ancora del tutto a capo.
Il male gaze è ovunque: è quando evito di sorridere troppo e mostrare i denti storti, quando su Instagram uso un filtro per coprire brufoli e occhiaie, quando mi vesto “carina” per compiacere uno sguardo maschile che forse neanche incontrerò.
Ma è anche quando mi faccio una foto e la pubblico, sperando che possa piacere alla mia cotta: il mio oggetto del desiderio.
Il male gaze può essere dunque tante cose: subìto, interiorizzato ma anche voluto, ricercato.
Di sicuro non è neutro, non è la norma ma solo uno dei tanti sguardi possibili.
E a proposito di male gaze e pubblicità, ho appena letto questo bell'articolo di Ginevra Candidi, Alice di Giamberardino e Roberta Cavaglià: Corpi femminili nelle pubblicità, quattro esempi da non seguire.
Un buon esempio di comunicazione inclusiva:
Closely è un brand svedese di biancheria intima e sportiva fondato nel 2019 da Tove Langseth e Filip Nilsson.
Per descrivere la loro filosofia scrivono:
«Entriamo sulla scena lasciando da parte le vecchie idee polverose su donne, corpi e design dell'intimo.»
Il loro sito web è colorato e allegro, i testi sono sufficientemente grandi (sì, apprezzo i font grandi anche se ho "solo" 39 anni), ed è popolato da persone di età, colori e forme diverse.
Mi incuriosisce molto il fatto che siano sempre alla ricerca di "test pilot", cioè di persone che vogliano provare in anteprima i loro capi.
Può partecipare anche chi vive in Italia, si può fare richiesta qui.
Come si vede dal modulo di richiesta, offrono tutte le taglie e stabiliscono pochi limiti di età (solo quello di avere più di 15 anni).
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice