Non è una scelta, ma una responsabilità ✨
#7
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Il mio compagno è messicano ma vive in Europa dal 2012. È ateo, ha una laurea in fisica e un dottorato, ha ottenuto il permesso di soggiorno a lungo termine nel 2017. Ora fa l'insegnante. Il suo passaporto è verde e, nella classifica del potere dei passaporti del mondo, si trova al 27º posto: può viaggiare senza VISA in 48 Paesi.
Io sono italiana, vivo in Spagna dal 2012. Sono nata e cresciuta cattolica ma ora mi considero atea, ho una laurea, sono iscritta al registro AIRE (Anagrafe degli Italiani all'Estero) dal 2013. Ho una Partita IVA dal 2015. Il mio passaporto è bordeaux e, nella classifica del potere dei passaporti del mondo, si trova al 3º posto: posso viaggiare senza VISA in 94 Paesi.
Da quando stiamo insieme, diversi anni ormai, abbiamo vissuto in quattro città diverse, abbiamo cambiato sei appartamenti e ne abbiamo comprato uno. Abbiamo anche passato molto tempo negli Uffici Stranieri di due Questure italiane, in quelli della Oficina de Extranjería di Barcellona, cancellato all'ultimo dei viaggi perché il rinnovo del permesso di soggiorno non è arrivato in tempo.
Sette anni fa, proprio in questo periodo, lui è sparito per otto ore, prelevato durante una retata della Policia Nacional sulle Ramblas di Barcellona.
Stava andando dal dentista in bicicletta, è stato fermato per un controllo documenti ma aveva lasciato il permesso di soggiorno a casa.
E quindi via: cellulare sequestrato, l'attesa in un stanza isolata dell'ufficio di polizia, l'inizio di una controversia legale, l'onere di dover dimostrare di essere nel giusto.
A sue spese, naturalmente, fino a prova contraria.
"È un sistema di controllo per quote etniche, probabilmente quando è toccato a te era il turno del profilo latinoamericano." — ci aveva spiegato la sua avvocata. "Le retate razziste della polizia, purtroppo, sono una realtà."
In Spagna sono tante le associazioni che chiedono giustizia e la sospensione dei controlli documenti basati sul profilo etnico.
I sindacati delle Fuerzas y Cuerpos de Seguridad del Estado (FCSE) negano, ma il razzismo istituzionale spagnolo è documentato da numerose ricerche, tra cui quella pubblicata dall'Istituto di Diritti Umani dell'Università di Valencia nel 2013.
Quella ricerca, per esempio, metteva a confronto il rischio di subire un controllo poliziesco in strada per una persona bianca e per persone di diverse etnie.
I risultati erano stati i seguenti (1 è il numero totale di arresti della polizia che una persona bianca può subire):
- persona nera 42:1,
- persona gitana 12:1;
- persona araba (magrebina) 10:1;
- persona latinoamericano 8:1.
Le cose non sono certo migliorate di recente, anzi: durante la quarantena dell'anno scorso, le denunce di retate razzista da parte della polizia sono aumentate in modo considerevole.
La profilazione razziale, in realtà, è una pratica diffusa in tutta l'Unione Europea.
Il giornalista Youssef Ouled riporta che, secondo i risultati del rapporto "Being black in the UE" pubblicato nel 2018 dall'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali, il 24% delle persone intervistate ha dichiarato di essere stata fermata dalla polizia nei cinque anni precedenti il sondaggio; tra queste, il 41% ha ritenuto che il fermo fosse dovuto a profilazione razziale.
Sono percentuali, ma dietro di loro ci sono vite reali, esperienze traumatiche dagli strascichi piuttosto lunghi.
Mi sono spesso soffermata a pensare cosa ci abbia lasciato, come coppia, come famiglia, quell'esperienza di sette anni fa.
L'ansia di lasciare le persone care nel silenzio, in attesa di notizie.
Il timore di non avere abbastanza potere o soldi per contrastare l'ingiustizia.
Il ricordo dell'umiliazione.
Le trafile burocratiche.
Il rompicapo del linguaggio giuridico.
La consapevolezza che la tua vita può imboccare una curva inaspettata per colpa di un errore burocratico.
La decisione di cambiare aspetti sostanziali della nostra vita, "per evitare problemi".
Sbattere contro il muro del privilegio e del colore sbagliato del passaporto.
Il muro del privilegio.
Nascere con dei privilegi non è stata una mia scelta. Ma ora è una mia responsabilità.
Lo dice Tatiana Mac, ingegnera statunitense che, oltre a progettare esperienze digitali inclusive e accessibili, è impegnata da anni nell'attivismo open-source e antirazzista.
L'ho conosciuta qualche anno fa su Twitter ed è anche l'autrice di una delle presentazioni tech più belle che abbia mai seguito: si chiama How Privilege Defines Performance, e analizza l'intersezione dei nostri privilegi con le esperienze che facciamo sul web.
La sua analisi ruota intorno a una constatazione: chi crea prodotti digitali (ma non solo) plasma l'esperienza di fruizione per renderla il più performante possibile, ma lo fa dal suo punto di vista. Un punto di vista che di solito è facilitato da una posizione di privilegio condita con bias inconsci.
Tatiana Mac parte dalla definizione di privilegio:
"Privilegio significa avere o vedersi garantiti dei vantaggi, dei trattamenti speciali o un'immunità solo per il fatto di rientrare in una certa categoria di persone."
E si addentra poi nell'inganno della categorizzazione, quella che, se lavoriamo nel marketing o nello sviluppo di prodotti, di solito identifichiamo con la creazione delle user personas.
Lo scopo delle personas è quello di creare rappresentazioni immaginarie, ma affidabili e realistiche, dei segmenti di pubblico a cui il nostro prodotto è destinato.
Secondo Mac, molto spesso gli utenti di un prodotto o servizio vengono classificati per nazionalità, razza, etnia, genere, classe, religione, caratteristiche fisiche e psichiche, orientamento sessuale. Sono le categorie che di solito compaiono nei moduli di iscrizione e di profilazione, o quelle che si prendono in considerazione per segmentare il pubblico e offrirgli diversi tipi di contenuti.
Il problema è che, gran parte delle volte, queste caratteristiche vengono interpretate secondo il sistema di potere dominante negli Stati Uniti e in Europa:
Una delle slide della presentazione di Tatiana Mac.
Un sistema in cui il potere è soprattutto nelle mani di uomini cis, bianchi, benestanti, protestanti, eterosessuali, statunitensi, neurotipici e senza disabilità.
Il tech è un esempio perfetto di ambiente in cui tutte queste caratteristiche creano una corazza potente di privilegio; ed è pure l'ambiente che genera prodotti con un'influenza enorme sulla vita di milioni di persone.
A un certo punto del suo discorso, Tatiana Mac etichetta i mattoncini del muro di privilegio con le sue caratteristiche per evidenziare il suo blocco di privilegio: non è un muro intero, perché lei non è bianca ma di origine asiatica, non è di religione protestante e non è nemmeno eterosessuale. In più, ogni mattoncino include anche delle sfumature: la depressione, l'essere statunitense di prima generazione, un benessere economico moderato dopo un'infanzia di povertà.
Il muro del privilegio ha delle sfumature che dipendono dal contesto e dalla lente con cui lo guardiamo.
Ho compilato il mio e, al netto delle sfumature, questo è il risultato:
Fatta eccezione per le disparità dovute all'essere donna in un mondo androcentrico, tutti i miei mattoncini di persona nata in un Paese cattolico denotano una situazione di grande privilegio.
Uno dei punti più interessanti della conferenza di Tatiana Mac è che l'altezza del nostro muro di privilegio determina la nostra posizione di partenza.
Maggiore la corrispondenza tra i nostri mattoncini e quelli del presunto status quo del muro bianco e nero visto sopra, più alto sarà il nostro muro di privilegio. E non per scelta, ma per caso.
È stato un caso, per me, nascere in Italia, in una famiglia di reddito medio e avere automaticamente diritto a un potente passaporto bordeaux.
Certo, otto mattoncini non bastano per esprimere il puzzle delle nostre identità soggettive. E l'altezza del nostro muro può variare nel tempo o nello spazio: la situazione economica può cambiare, così come lo stato di salute o il benessere psicofisico; oppure potremmo trovarci a vivere — per scelta o per cause di forza maggiore — in una zona del mondo in cui il nostro set di privilegi viene scombussolato.
È per questo che fare un check di privilegio, ogni tanto, non fa male.
Aiuta a capire in che punto ci troviamo, qual è il nostro potere e quali le nostre responsabilità.
Perché il privilegio con cui nasciamo sarà anche casuale, ma il sistema che ci garantisce la nostra porzione di potere non lo è.
Qualche altro consiglio di lettura e ascolto su questi argomenti:
Sulla razza, un podcast sulla questione razziale in Italia che nasce per "tradurre in italiano concetti ed espressioni provenienti dalla cultura angloamericana, ma che ci ostiniamo ad applicare alla realtà italiana, come BAME, colourism, e fair skin privilege". Le autrici sono Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Catena Mancuso.
Why I'm no longer talking to white people about race, un libro di Reni Eddo-Lodge per esplorare le sfaccettature del privilegio delle persone bianche e capire come questo si allacci al razzismo sistemico, ai problemi di classe e alla necessità di una visione femminista della società.
Un documentario sugli errori e i pericoli dell'Intelligenza Artificiale (e sui bias di chi la sviluppa): Coded Bias, su Netflix, racconta la scoperta di Joy Buolamwini, ricercatrice del MIT, poeta e computer scientist, dei pregiudizi razziali e di genere nei sistemi di intelligenza artificiale venduti dalle grandi aziende tech. Insieme ad altre attiviste, Buolamwini ha fondato l'associazione Algorithmic Justice League.
A proposito del lavoro di Buolamwini, questo bell'articolo di Donata Columbro approfondisce il tema della parzialità algoritmica ma anche un caso recentissimo che ha coinvolto la ricercatrice statunitense e il suo team. La settimana scorsa, la trasmissione 60 minutes di CBS News ha trattato il tema dei bias degli algoritmi di riconoscimento facciale, presentando i risultati e la ricerca di Buolamwini e delle ricercatrici Timnit Gebru e Deborah Raji, senza citarle mai né dar loro credito. 🤦♀️
Il fichissimo progetto open-source di Tatiana Mac (sì, sempre lei, sì, tanta stima): Self-Defined, "un dizionario moderno che parla di noi", è una raccolta di definizioni fluide di termini che spiegano il mondo di oggi. La cosa migliore? Chiunque può proporre un termine e la sua definizione. 💛
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Intersezionalità
Il termine intersezionalità, intersectionality, è stato coniato negli anni '80 dalla giurista e attivista per i diritti civili Kimberlé Crenshaw.
Crenshaw scelse la metafora dell'incrocio in una strada trafficata per spiegare le esperienze delle donne nere nel sistema legale negli Stati Uniti di quei tempi.
Le donne nere non erano protette dalle leggi contro la discriminazione razziale, perché erano leggi basate sull'esperienza degli uomini neri.
Ma non erano nemmeno protette dalle leggi contro la discriminazione sessuale, perché quelle erano basate sull'esperienza delle donne bianche.
Le donne nere, insomma, si trovano a un incrocio, nel punto in cui le strade del sessismo e del razzismo si incontrano.
Le loro esperienze sono diverse da quelle delle donne bianche (che non sperimentano il razzismo), e diverse da quelle degli uomini neri (che non sperimentano il sessismo).
Le donne nere conoscono entrambe le esperienze e le vivono simultaneamente.
La prima persona a fare un discorso pubblico sull'intersezionalità, pur senza chiamarla così, fu Sojourner Truth nel 1851.
Sojourner Truth era una donna afroamericana fuggita dalla schiavitù, che nel 1851 stava partecipando alla Conferenza sui diritti delle donne ad Akron, in Ohio. Prima che Truth intervenisse, la conferenza si era concentrata in gran parte sulle esperienze delle donne bianche relativamente ricche e sulla loro lotta per il voto.
Uno degli argomenti sollevati dalle posizioni anti-suffragiste era che le donne fossero troppo fragili e delicate per assumersi le responsabilità dell'attività politica.
Il discorso di Truth fece notare che questa concezione era basata su una visione molto ristretta delle donne:
“Look at my arm!
I have ploughed and planted and gathered into barns, and no man could heed me – and ain’t I a woman?
I could work as much and eat as much as a man – when I could get it – and bear the lash as well!
And ain’t I a woman?
I was born 13 children, and seen most of ‘em sold into slavery, and when I cried out with my mother’s grief, none by Jesus heard me – and ain’t I a woman?”
Ain't I a woman, non sono forse anche io una donna?, è il potente promemoria di Truth: perché solo certe donne erano considerate "fragili", "delicate" e inadatte al lavoro?
L'esperienza di cui parla Truth non poteva essere ricondotta solo al suo genere: la sua esperienza di donna e schiava che lavorava nei campi non poteva essere scissa dal suo vissuto di razzismo.
Il femminismo intersezionale riconosce che non è possibile porre fine al sessismo, allo sfruttamento e all'oppressione sessista senza pensare a come questi si intersecano con altre forme di oppressione basate sul genere, sulla razza, sull'etnia, sull'orientamento sessuale e sulla classe sociale.
"Se non abbracciamo questa visione, il nostro femminismo mirerà a porre fine al sessismo, allo sfruttamento e all'oppressione sessista solo per alcune donne." scriveva bell hooks in Feminist Theory: From Margin to Center nel 1984.
Bonus ascolto: Il podcast di Kimberlé Crenshaw, Intersectionality Matters.
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice