🚪 #8 E se non volessi uscire dalla comfort zone?
Ciao! 👋
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
Ho firmato il mio primo contratto a tempo indeterminato nel 2008, quando lavoravo per una grande azienda di ricerche di mercato.
Riportavo direttamente alla responsabile del dipartimento internazionale, una donna dal carattere d'acciaio che entrava in ufficio come un treno con le sue decine di richieste dell'ultima ora, incurante degli straordinari non pagati. Era una leader stimata e molto temuta, e io – venticinquenne secchiona e ancora abbastanza timida – ero diventata il suo braccio destro.
Ma soffrivo, oddio quanto soffrivo.
Lavorare con lei era una quotidiana corsa contro il tempo. Mi ero abituata a lavorare in condizioni di forte stress, a portare i miei limiti fisici ed emotivi all'estremo.
Una sera, a Milano era ormai calato il sole, stavamo ultimando la presentazione per un cliente importante. La mia responsabile aveva un aereo da prendere nel giro di poche ore e doveva portare con sé la presentazione per esporla al cliente di prima mattina.
Sudavo freddo, non ne potevo più, volevo andare a casa o in bagno a piangere per la frustrazione.
"Alice, lei è sempre così tranquilla" - mi disse lei.
"Dottoressa, so che non si vede, ma io sto morendo dentro" - le risposi.
Quanto era vero. Quel lavoro mi faceva morire dentro, corrodeva le mie pareti gastriche, pompava lo stress direttamente al cervello e a fine giornata tutta la testa pulsava, esausta.
Era la prima volta che le dicevo come mi sentivo.
Credo sia stata anche la prima volta che ho trovato parole per quel senso di malessere che da anni si faceva spazio nello sterno, togliendomi il respiro.
Stavo male, ma lo facevo dalla zona di comfort chiamata tempo indeterminato. E in un momento storico in cui la maggior parte delle persone della mia età si barcamenava tra co.co.co, stage non pagati o disoccupazione.
Potevo rinunciare a quel cosiddetto comfort solo perché l'ansia non mi faceva dormire la notte?
Dovevo forse stringere i denti un po' di più, rilassarmi e non pensarci quando tornavo a casa (era il consiglio inutile più gettonato), consolarmi all'idea di essere fortunata?
Valeva la pena rovinarmi la salute in cambio dell'ambito posto fisso?
Vorrei dirti che, quando presi la decisione di lasciare, lo feci così:
In realtà la mia uscita di scena fu molto meno teatrale, ma la sensazione di star facendo una scelta importante per la mia salute mentale fu impagabile.
Il punto a cui sto cercando di arrivare è: quanto cavolo ci ha fregato la retorica della comfort zone?
Ma anche: non sempre uscirne è la risposta.
Sì, lo so che la storia che ti ho appena raccontato potrebbe diventare l'aneddoto perfetto per lo slogan "Il meglio della vita si trova fuori dalla tua zona di comfort!".
E per molto tempo l'ho pensato anche io.
Anzi, continuo ad appigliarmi inconsciamente a questo principio quando faccio cose che mi spaventano moltissimo, tipo parlare di cattivo uso delle parole e diritti umani in diretta tv.
Ma la verità è che ho iniziato a prendermi la libertà di non voler uscire dalla mia zona di comfort.
A dare la priorità al mio benessere e alla mia salute mentale.
A provare a ponderare, grazie alle mie belle liste di pro e contro, l'impatto che certe scelte avranno sul mio disturbo d'ansia.
Se il suono stridente dei campanelli d'allarme supera il dlin-dlon delle campane a festa, io rimango dove sono.
Non mi muovo, non vedo gente, non vado alle feste, non faccio networking, non uso i social. Sto, in attesa che il cuore torni a battere a un ritmo regolare.
Perché la mia zona di comfort, a volte, è proprio comoda.
La notizia del ritiro di Naomi Osaka dal Roland Garros ha ispirato il tema di questa newsletter.
Lei è l'atleta donna più pagata del mondo (e bisogna specificare donna, perché nella classifica globale è al 29º posto: significa che prima di lei ci sono 28 sportivi uomini).
La settimana scorsa, dopo aver vinto il match di esordio del torneo, si è ritirata dalla competizione. Qualche giorno prima si era rifiutata di parlare con la stampa per salvaguardare la sua salute mentale, nonostante la partecipazione alle conferenze sia uno dei requisiti che ogni tennista del Roland Garros deve rispettare.
Per via di questa scelta, ha ricevuto una multa di 15 mila dollari ed è stata criticata sulla stampa, dal comitato organizzatore del torneo ma anche da altr3 collegh3.
Dopo essere stata multata e minacciata di essere espulsa dall'Open di Francia, si è ritirata.
Sì, ha agito di anticipo: di fronte alla minaccia, ha abbandonato il campo alle sue condizioni, preferendo ritirarsi del tutto pur di non dover sottostare alle pressioni che le arrivavano dalla stampa e dall'organizzazione del torneo.
Il fatto che abbia parlato apertamente delle sue difficoltà e della sua salute ha generato un importante dibattito sull'integrità mentale nello sport professionistico e sulla pressione di media e pubblico.
Se ne parla ancora troppo poco, e spesso come un tabù. Di sicuro Osaka ha sfondato una porta che era chiusa da troppo tempo.
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Che si parli di disabilità o di altre condizioni personali soggette a stigma, una questione da non sottovalutare riguarda le parole per descriverle.
E allora, per l'episodio del mini-glossario di oggi, lascio la tastiera a Chiara Pennetta (@the.undeaf su Instagram), specializzata in didattica dell'italiano come lingua straniera e divulgatrice sui temi legati alla sordità. L'avevo già presentata nel terzo numero di Ojalá, quando aveva scritto un altro bel contributo su.
Linguaggio identity-first vs. linguaggio people-first.
Un tema ricorrente nel dibattito sociolinguistico in corso riguarda le modalità corrette di riferirsi alle persone in relazione a una loro caratteristica (solitamente soggetta a stigma).
In inglese si è creata dunque la contrapposizione tra linguaggio identity first e linguaggio person first.
Nel primo caso, per esempio, l’espressione disabled people presenta la disabilità prima della persona.
People with disabilities, invece, pone l’attenzione sul fatto che ogni persona è una persona a prescindere da ogni sua caratteristica.
In italiano, lingua che pone gli aggettivi dopo il nome, la questione è un po’ diversa: tra persone disabili e persone con disabilità la differenza è tra “essere” (identità) e “avere” (si è prima di tutto una persona, e poi si ha, incidentalmente, una caratteristica).
Quindi, quando diciamo persone disabili stiamo usando un linguaggio identity first; quando scegliamo persone con disabilità stiamo usando un linguaggio person first.
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (in inglese, people with disabilities) ha chiaramente scelto di usare il linguaggio person first, ma vi sono moltissime persone che usano il linguaggio identity first come forma di rivendicazione e espressione d’orgoglio.
Non esiste dunque una scelta giusta in assoluto, la cosa migliore che possiamo fare, se non sappiamo se dire “persona disabile” o “persona con disabilità”, “persona sorda” o “persona con sordità” è chiedere alla persona con cui stiamo parlando.
Altri spunti di lettura per questa settimana:
"Guida per aziende al mese del Pride (e per parlare della comunità LGBTQ+ tutti gli altri mesi dell'anno)" è un ebook scritto da Carola Bravin, Nicolò Manfredini e Roberto Rafaschieri, menti e mani di Indig Communication.
Seguo da qualche mese il loro lavoro su Instagram, e sanno come parlare di comunicazione inclusiva in modo fresco, piacevole e dritto al punto. Questo ebook è una miniera di informazioni preziose per aziende (ma non solo) che vogliono esporsi e sostenere la comunità LGBTQ+.
Sia a giugno, durante il mese del Pride, sia nel resto dell'anno.
Puoi scaricare gratuitamente il primo capitolo, ma ti assicuro che vale la pena di leggere anche il resto.
Identità, orgoglio e autorappresentanza, un post di Fabrizio Acanfora che traduce il discorso di Georgia, "unǝ queer tatuatǝ di 30 anni, stereotipatǝ e un po’ pretenziosǝ" che vive a Sidney e ha una paralisi cerebrale emiplegica del lato destro.
All the things you shouldn't be evaluating during interviews: un articolo di Sheri Byrne-Haber, blogger e attivista per la lotta all'abilismo, su come la maniera tradizionale di condurre colloqui di lavoro sia spesso farcita di bias e di atteggiamenti abilisti.
Una mia intervista sul blog di Anticurriculum, il progetto che mira ad aprire uno spazio critico sul mondo del lavoro. Abbiamo parlato di copywriting inclusivo, ça va sans dire, ma anche dell'impegno che mi comporta questa newsletter, della mia esperienza nel tech e dei consigli che darei a chi vuole avvicinarsi a questo mondo.
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice