Uno sguardo oltre confine 🌍
#12
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Che dire: è un’estatina movimentata, questa del 2021, non ti sembra?
Proviamo a respirare a fondo per un momento e a silenziare il tumulto là fuori.
Pensavo che avrei dedicato questo nuovo episodio della newsletter alle riflessioni scaturite da una conversazione difficile con un potenziale cliente nel bel mezzo della ola de calor agostana… ma credo che te le riserverò per la prossima volta.
Respiriamo, allora, e proviamo a concentrarci su qualcosa di bello.
Tipo: lunedì scorso sono tornata al MACBA – il Museo di Arte Contemporanea di Barcellona — e ho visto “Política de relación”, la mostra dell’artista cubano Felix Gonzalez-Torres.
Ne hai mai sentito parlare?
Se la risposta è no, non ti preoccupare — prima di lunedì scorso non ne sapevo nulla nemmeno io; ma ora mi ci sono affezionata e vorrei conoscere tutte le sue opere.
Un ritratto di Felix Gonzalez-Torres
Gonzalez-Torres nasce a Cuba nel 1957, vive parte della sua giovinezza in un orfanotrofio a Madrid e, adottato da uno zio, inizia a studiare arte a Puerto Rico. Trova la sua strada artistica a New York, dove si associa al collettivo Group Material. Muore nel 1996 a Miami per complicazioni dovute all’AIDS.
È un artista che si destreggia tra due lingue, diverse culture e molteplici identità: latinoamericana, spagnola, statunitense, queer. Si muove sottile tra le pieghe dei linguaggi e della geopolitica, gioca con la sua identità di cittadino, elettore, migrante, amante, compagno, tra contesti complessi, e cerca di spodestarne i significati predominanti.
Sfida lo stereotipo della migrazione, ridefinisce il significato di esilio, di populismo, di libertà. Lui stesso vuole smarcarsi dallo stereotipo dell’artista “ispanico” e sceglie di eliminare l’accento grafico dal suo cognome d’origine, González.
Per Felix Gonzalez-Torres l’arte è politica, così come le parole che sceglie per le sue grandi opere murali.
«Untitled» It’s Just a Matter of Time del 1992: versione in catalano.
È solo questione di tempo, ci dice con questa gigantografia in carattere gotico. E l’associazione è subito chiara: è solo questione di tempo prima che l’estrema destra e il populismo ritrovino la loro strada nella nostra vita comunitaria. Lui lo metteva nero su bianco nel 1992; io lo leggo oggi e questa parete nera mi dà i brividi.
Anche il tempo può diventare politico.
E Gonzalez-Torres lascia che siano i due orologi identici di «Untitled» (Perfect Lovers) a dircelo: le lancette si muovono all’unisono per segnare ore, minuti e secondi.
Rappresentano l’amore omosessuale tra due uomini, ma anche il fuso orario spagnolo che si allineò con quello tedesco dopo la vittoria di Franco, nonostante la Spagna non si trovasse nella stessa zona geografica della Germania.
«Untitled» (Perfect Lovers) del 1987-1990
Ho amato molto questa mostra che non affolla le pareti ma, minimalista com’è, lascia grande spazio alle similitudini: tra la nostra realtà e quella di Gonzalez-Torres nelle sue migrazioni tra Spagna, America Latina e Stati Uniti; tra franchismo spagnolo e militarismo USA; tra la pandemia di AIDS e quella attuale che stiamo imparando a conoscere; tra patriottismo manipolatorio («God Bless Our Country and Now Back to War», 1989) e ricorsi storici di cui ci dimentichiamo («We Don’t Remember» del 1991).
«Untitled» (God Bless Our Country and Now Back to War), del 1989
Ogni riferimento al presente non è affatto casuale.
E no, non voglio trasformare Ojalá in una newsletter di critica d’arte (argomento che, oltretutto, non sono in grado di trattare).
Ma questa mostra mi ha ridato l’ispirazione che a luglio, quando ho chiuso il lavoro della prima metà dell’anno, avevo iniziato a perdere e che stava soffocando tra caldo e fatica.
Mi ha ricordato che occuparmi, occuparci, di linguaggio inclusivo è (anche) un atto politico.
E che il linguaggio inclusivo può essere messo in discussione, integrato, ampliato, contestualizzato. Forse un giorno smetterà anche di essere trattato come qualcosa che va di moda, di generare azzuffate nelle pagine culturali dei nostri quotidiani o di attrarre persone che pensano solo a costruirci un business sopra (...ne parleremo, forse, nella prossima puntata).
Eppure — ne sono certa — continuerà a essere uno strumento di cambiamento per chi vorrà portarlo avanti: non l’unico, ovviamente, ma tra i più potenti.
È solo questione di tempo, per citare Gonzalez-Torras e versare sulle sue parole una patina di paillettes e speranza. 🌈
Un buon esempio di comunicazione accessibile:
Sono stata tante volte al MACBA, eppure — è il bello dei musei — questa volta l’ho vissuto come un’esperienza nuova. Lunedì, scendendo le scale che collegano il terzo e il secondo piano, mi sono imbattuta in questo messaggio in francese:
Dice: “Êtes-vous déjà venu·e ici ? Racontez-nous.”
Potremmo tradurlo come: “Sei già statə qui? Raccontacelo.”
Non so se conosci il francese, ma noti qualcosa di particolare in questa frase?
(Ok, a parte il fatto che tra “ici” e il punto interrogativo c’è uno spazio: quello è normale; la punteggiatura francese va affrontata così... acriticamente 😅).
Il messaggio è scritto in francese inclusivo: venu·e è la forma inclusiva del verbo “venir” coniugato alla terza persona singolare.
La forma classica sarebbe venu, al maschile, proprio come noi in italiano diremmo “Sei già stato qui?”.
La proposta più popolare di linguaggio inclusivo in francese prevede di aggiungere sia la desinenza femminile che quella maschile nella stessa parola: una sinergia di desinenze che ha però il limite di rimanere binaria. (Per capire meglio come funziona il francese inclusivo, puoi leggere questo articolo del mio blog.)
Questo messaggio del MACBA mi ha fatto sorridere.
È sempre stato qui o è una recente introduzione? Possibile che non me ne sia mai accorta?
(Poi mi ricordo che nell’ultimo anno e mezzo non sono stata una grande frequentatrice di musei...).
Partendo da qui, una volta tornata a casa mi è venuta la curiosità di verificare se anche il sito web del MACBA usi un linguaggio inclusivo di genere.
La risposta è: più o meno sì.
Una schermata dell'homepage in catalano del sito del MACBA: queste sono le tre mostre in corso.
Il sito è disponibile in castigliano, catalano e inglese, ma l’uso del linguaggio inclusivo non è coerente in tutto il sito.
La scelta predominante è quella di evitare il più possibile le parole da declinare per genere, quindi compaiono molte parole neutre, come persona, pubblico o collettivo (bene!).
A volte, quando la declinazione di genere è inevitabile, compare la doppia forma maschile-femminile, come nella pagina dedicata al tesseramento (“Hazte Amigo/Amiga”) o in quella delle offerte di lavoro (“Directivo/a de marca”).
Allargando la visuale oltre il genere, mi piace molto il modo in cui il museo spiega nel dettaglio, e in un linguaggio molto chiaro, le sue misure di accessibilità. Anche questo è parte integrante di una comunicazione inclusiva.
Far sapere al pubblico, quando ancora si trova nella fase esplorativa del web, che la fruizione del museo è aperta a chiunque grazie a:
misure di accessibilità uditiva, come il sistema acustico in campo magnetico e le visite con interprete di lingua dei segni;
misure di accessibilità visiva, come lenti di ingrandimento, cataloghi delle esposizioni in Braille, riproduzioni tattili e immagini in altorilievo di alcune opere, ma anche ciotole d’acqua per i cani da assistenza;
misure di accessibilità fisica, come l’assenza di barriere architettoniche, la disponibilità di due sedie a rotelle per le persone che non possono stare in piedi a lungo, i bagni accessibili;
misure di accessibilità cognitiva, per cui – usando le parole del sito – “le visite includono supporti sensoriali e dinamiche interattive. Lavoriamo con concetti e contenuti adatti al grande pubblico, ma adattiamo il discorso e offriamo azioni specifiche per le diverse esigenze di comprensione e apprendimento.”
Tutta questa ricerca sul MACBA, poi, ha generato un’altra domanda: e negli altri musei che parlano spagnolo, come funziona?
Così ho trovato questa ricerca di Laura Luque Rodrigo, Dottoressa in Storia dell’Arte dell’Università di Jaén, che esplora l’uso del linguaggio inclusivo e non sessista nell’ambito museale ispanofono, sia in Spagna che in America Latina.
Se conosci lo spagnolo è una lettura interessante, contiene molti esempi e proposte pratiche.
Rimane l’ultima domanda, quella che non ho ancora avuto tempo di esplorare a fondo, e per questo chiedo l’aiuto da casa: e in Italia, come andiamo?
Da una rapidissima ricerca e dalle recensioni di Disabili.com, mi sa che c’è ancora molto da fare: la Galleria degli Uffizi, giusto per nominarne una, è ancora legata al concetto di “portatori di handicap” — argh!
Conosci uno studio più approfondito sul linguaggio inclusivo nel contesto museale italiano? Fammelo sapere!
Altre letture e visioni che ti consiglio:
1.
Il carattere gotico su fondo nero usato da Gonzalez-Torres per «Untitled» It’s Just a Matter of Time rimanda subito agli orrori nazisti; questa associazione mi ha fatto ripensare al tema dei font e delle emozioni che generano. Mi sono ricordata di un articolo letto tempo fa sugli stereotipi alimentati dalla scelta dei font nel graphic design.
Hai presente i “font etnici”? Sì, quelli che campeggiano nelle insegne di ristoranti, siti di viaggio, magliette o souvenir e che ti fanno subito pensare alla sua presunta origine geografica. Come il Diogenes per la Grecia, il Wonton per la Cina, o gli innumerevoli font “arabeggianti” e “africani”, qualsiasi cosa questo voglia dire.
Ecco. Di originale hanno ben poco: i “font etnici” sopravvivono per mere ragioni commerciali. Sono scorciatoie mnemoniche che azzerano le sfumature culturali per andare dritte al punto: la possibilità di comprare e vivere un’esperienza diversa, esotica, altra. Comprare, soprattutto.
Tanto che, ricorda l’articolo Stereo Types pubblicato da PRINT nel 2009, sono spesso le persone immigrate che aprono piccole attività commerciali in un altro Paese a scegliere il richiamo facile di questi font, non chi fa design di professione.
Una bella lettura che racconta l’origine e la problematicità di queste scelte tipografiche è
New Black Face: Neuland and Lithos as Stereotypography, di Rob Giampietro, ex-direttore del design al MoMA di New York.
2.
Visto che questo numero di Ojalá ha preso una piega internazionale, ti consiglio l’ultima mini-serie che ho visto: Todo va a estar bien.
È una tragicommedia messicana che racconta la difficoltà della genitorialità e della vita di coppia. È ambientata a Città del Messico, diretta da Diego Luna.
Perché te la consiglio?
Perché alcuni dei personaggi usano uno spagnolo inclusivo: se ti interessa capire come suona il linguaggio inclusivo in spagnolo, questa serie è un’occasione carina per iniziare. (E presto scriverò un articolo sul tema per il mio blog).
Perché introduce il tema del poliamore e del voler vivere le relazioni sentimentali e famigliari nel modo che ci è più consono. Non romanticizza il matrimonio, ma nemmeno lo demonizza.
La bambina protagonista della serie, Andrea, parla con un'amica dei genitori che le dice: "Sono la ragazza di Raiza e Romina".
Perché affronta il tema del femminismo e alcuni dei dissidi attuali all’interno dello stesso movimento (sempre colpa del marketing, già). E rappresenta bene la figura del “macho alleato”, l’uomo che si sente femminista... ma poi i fatti lo smentiscono malamente.
Ruy, protagonista della serie, che dice durante un episodio del suo programma in radio: "Io, per esempio, sono padre di una bambina: certo che sono un alleato".
E soprattutto perché racconta una porzione di vita a Città del Messico in modo molto vero. Le persone che compaiono nel corso della storia hanno facce e voci variegate; non sono modelle gūeras (bianche, con occhi e capelli chiari) né starlette di Televisa, come spesso capita nelle produzioni mainstream messicane.
Sullo schermo compaiono persone di estrazioni sociali ed etnie molto diverse, proprio come nella quotidianità di un barrio della megalopoli messicana: famiglie progressiste dalle origini benestanti; donne che hanno lasciato il loro paesello di campagna per lavorare a tempo pieno nelle case “dei ricchi”; il ragazzo che mantiene la famiglia lavorando al mercato nero; il giudice burocrate che, ferito nell'orgoglio machista, vuole negare a una madre la custodia della figlia; il signore del chiosco di giornali che vende anche tamales e atole a bordo strada la mattina presto...
Che nostalgia di Città del Messico, mammamia.
E infine: ha una colonna sonora coi fiocchi.
«Untitled» (The End), del 1989
Per questo lunedì ho finito.
Rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice