Domande scomode, anzi scomodissime 🤔
#13
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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«Lo diceva anche Martin Luther King, no? Sognava di vivere in una nazione nella quale le persone non fossero giudicate per il colore della pelle, ma per le loro qualità. Il razzismo al contrario è un grosso problema, negli Stati Uniti. Sembra che dobbiamo vergognarci di essere bianchi.»
E con questa frase, accompagnata dalla mia faccia di marmo mentre la ascolto, si è chiusa sul nascere, qualche settimana fa, una collaborazione con una start-up mezza statunitense e mezza barcellonese che sulla carta sembrava molto promettente.
Il progetto, curiosamente, ruotava intorno a programmi di diversità, equità e inclusione (spesso abbreviato come DEI o D&I) nelle aziende tech.
La vista notturna di Barcellona sotto i miei occhi, mentre ascoltavo quelle parole, era più o meno questa.
(Foto di Pere Jurado su Unsplash ).
Mi è venuto subito in mente il saggio di Reni Eddo-Lodge, "Why I'm No Longer Talking to White People About Race" (tradotto in italiano da Silvia Montis per Edizioni E/O).
A pagina 100, Eddo-Lodge dice (la traduzione è mia):
«Succede spesso che persone bianche si mettano in contatto con me e citino le parole del leader del movimento per i diritti civili, Martin Luther King Jr, nel tentativo di evidenziare come il mio lavoro sia fuorviante, e quanto io stia sbagliando.
Nelle loro email e su Twitter, mi dicono che Martin Luther King Jr sognava un mondo in cui le persone non fossero giudicate per il colore della pelle ma per la loro qualità personali.
L'intenzione dei loro messaggi mi suggerisce che questi benefattori credano che, nel contesto attuale, quelle parole significhino piuttosto che le persone bianche non dovrebbero essere giudicate in base al colore della loro pelle. Che il potere legato alla bianchezza in senso razziale non dovrebbe essere giudicato.»
Eddo-Lodge rafforza il suo discorso citando le parole che Martin Luther King Jr scrisse dalla sua cella nel 1963, con cui esprimeva la sua delusione verso "i bianchi moderati" e il loro paternalismo nei confronti del movimento di lotta al razzismo.
È davvero questa la D&I che ci serve?
Il diversity management, quando affrontato con consapevolezza e strumenti validi, è una politica aziendale fondamentale per creare un ambiente di lavoro sano, rispettoso e aperto alle necessità di tutte le persone che lo abitano. Gli esempi virtuosi per fortuna sono tanti, e spesso ne ho parlato anche in questa newsletter.
Mi stupisce però vedere come il binomio diversità&inclusione sia diventato il business del momento, e a volte venga portato avanti da persone che non hanno mai ragionato a fondo sul loro privilegio.
Persone che pensano che il razzismo al contrario sia una realtà. Che non si possa più dire niente. Che certi argomenti siano esagerati, e non c'è poi tanto bisogno di stare a girarci intorno.
Che essere bianchi sia diventata una colpa e diomio quanto è scomodo dover pensare di vivere in Paesi sistematicamente razzisti!
Ok, il sistema capitalista in cui viviamo ci porta (su base collettiva), a monetizzare qualsiasi opportunità e a cercare nuove occasioni di guadagno quando certe mode prendono piede.
E ti dirò, nel mio piccolo è un cruccio che mi sono spesso fatta anche io dal momento in cui ho deciso di focalizzarmi sul copywriting inclusivo.
Però credo esista un limite dettato dall'onestà intellettuale.
Senza la predisposizione a mettersi in discussione, a confrontarsi con persone che vivono in prima persona determinate discriminazioni e oppressioni (siano esse legate al razzismo, ma anche al sessismo, all'omobitransfobia o all'abilismo...), come possiamo pensare di avere in mano la soluzione ai problemi di D&I in ambito lavorativo?
Sono quesiti che lascio aperti, dimmi pure se ti sembrano naïf.
Per me si tratta di riflessioni quotidiane e di risposte che non sempre arrivano.
Mi guardo attorno con cautela, leggo più che posso, cerco di mantenere all'erta il pensiero critico e di evitare situazioni che mi facciano sentire scomoda.
A volte non trovo nemmeno le parole giuste con cui ribattere a certe esternazioni, e me ne dispiaccio.
Ma la mia faccia che si pietrifica forse è già abbastanza eloquente, chissà.
Davvero, dimmi cosa ne pensi.
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Daltonismo razziale
Quante volte hai sentito (o hai pronunciato) una frase come: "Per me razze e colori non esistono"?
O:
“Non vedo colori, solo persone.”
“Non mi interessa il colore di una persona... per me può essere nera, bianca, verde o a pois viola, è uguale!”
“#AllLivesMatter”
Non so, mi sento di scommettere che queste frasi non ti suonano nuove.
Ecco, un pensiero di questo tipo, anche quando ispirato dalle migliori intenzioni, denota quello che viene chiamato daltonismo razziale, traduzione dell'inglese di racial colorblindness.
Il daltonismo razziale è l'ideologia secondo cui il modo migliore per porre fine alle discriminazioni razziali è trattare le persone nel modo più equo possibile, senza considerare la razza, la cultura o l'etnia (Williams, Colorblind Ideology Is a Form of Racism, 2010).
Detto così, non sembra nemmeno sbagliato... ma allora perché è un concetto pericoloso?
Ricorro di nuovo alle parole di Reni Eddo-Lodge e del suo saggio (leggilo, davvero):
«Il daltonismo razziale si fonda su un'analisi semplificata e infantile del razzismo. Inizia e finisce con il concetto secondo cui "discriminare una persona a causa del colore della sua pelle è sbagliato". Ma non prende in considerazione i modi in cui il potere strutturale si manifesta negli scambi tra le persone.
Con un'analisi così immatura, questa definizione di razzismo è spesso usata per mettere a tacere le persone nere che cercano di parlare del razzismo che subiscono.
Quando le persone nere lo fanno notare, vengono accusate di essere razziste contro le persone bianche, e così si continua a evitare l'assunzione di responsabilità.
Il daltonismo razziale non accetta la legittimità del razzismo strutturale o la storia della supremazia razziale bianca.»
Frasi del genere, insomma, partono forse dalla buona intenzione di voler rimarcare che ogni essere umano dovrebbe avere la stessa dignità ed essere rispettato a prescindere dal colore della sua pelle.
Ma chi le pronuncia sono persone bianche e privilegiate, che possono "dimenticarsi" del loro colore. Le persone razzializzate, invece, non possono semplicemente ignorare le discriminazioni o le micro-aggressioni che subiscono ogni giorno.
Per approfondire, puoi leggere anche l'articolo Quando la razza conta, dell'antropologa Francesca Nicola, di cui ti cito un estratto:
«La studiosa di diritto ed esponente della CRT Barbara Flagg ha elaborato questo concetto attraverso la potente immagine della trasparenza: nella vita quotidiana i bianchi non pensano a loro stessi in termini razziali.
Associando il concetto di razza esclusivamente alle persone di colore, tendono a guardare la razza dall’esterno, come se per loro fosse del tutto trasparente. Sono consapevoli della loro bianchezza solo quando si rapportano a un contesto in cui sono presenti non-bianchi.
Lo dimostra anche una serie di esperimenti condotti con alcuni studenti dalla psicologa Beverly Tatum. Alla richiesta di completare la frase “Io sono…” in un minuto, gli studenti di colore immediatamente menzionano la loro appartenenza razziale o etnica, le donne il loro essere donna, gli studenti ebrei l’appartenenza religiosa, gli studenti gay l’identità sessuale.
I ragazzi bianchi, invece, non menzionano la bianchezza, così come gli uomini non includono nella descrizione il loro genere e gli eterosessuali il loro orientamento sessuale.»
(Ndr.: l'espressione "persone di colore", che viene usata come calco dell'inglese people of color, viene criticata dalle persone di minoranze visibili che vivono in Italia, e sarebbe meglio non usarla. Per un approfondimento, ti consiglio di ascoltare la puntata del podcast Sulla Razza intitolata "Una goccia di sangue nero".)
Altre belle letture e visioni per approfondire:
The myth of reverse racism, di Vann R. Newkirk II, The Atlantic.
II 57% delle persone bianche negli Stati Uniti crede che la discriminazione contro i bianchi sia un problema grave quanto le discriminazioni contro le persone nere. Sono dati del 2017, ma rendono comunque l'idea.
How to make diversity, equity and inclusion a reality at work — not just a mission statement, di Daisy Auger-Domínguez.
«We can do that if we hold up a mirror, if we act on what we know and if we persist despite our discomfort. This work requires all of us to work harder. It takes daily actions like questioning the lack of diversity on your team, refusing to tokenize Black, Indigenous and people of color, and standing up against injustices in your workplace.»
Rachel Cargle Is Calling Out White Feminism, One Lecture at a Time, di Keryce Chelsi Henry su Salty.
«When you scroll through your Instagram page, are you just looking at a bunch of white women who look and experience life just like you? There’s no way you can be an ally if you’re surrounded by similar experiences because then you can’t speak to, or understand, or admit to the things that black women are experiencing. So you have to look into really listening to the voices of, reading the voices of, and watching the stories of black women.»
La posizione queer come cardine della lotta anticapitalista, intervista a Federico Zappino, di Fabio Bozzato sul blog di CheFare.
È un pezzo che parla soprattutto di comunità queer, e arriva a toccare il tema che ha ispirato questa newsletter. Ecco un estratto:
«Il neoliberismo ha ottenuto consensi presso le minoranze di genere e sessuali proprio perché si poneva come “inclusivo” nei riguardi di vite e corpi storicamente tenuti ai margini dall’ordine sociale eterosessuale. Ma questo non significa affatto che il neoliberismo abbia sovvertito i presupposti dell’esclusione sociale delle minoranze di genere e sessuali, e di qualunque altra – su tutte, le minoranze razziali. [...] La critica queer più radicale ha sempre messo in guardia dai pericoli dell’illusione neoliberista: ciò che veniva venduta come “inclusività” non era che il profitto del capitale sulla “diversità”, ossia sulla diseguaglianza, sull’emarginazione e sulla segregazione, anche relazionale e sessuale, di interi gruppi minoritari.»
Ho scoperto l'articolo precedente grazie al canale Telegram "Embrace the femme", curato da Tristan Guida. È «un canale transfemminista in cui mettere in circolo risorse sulla cultura e l'etica transgenere e non binaria». Io lo trovo davvero prezioso, per cui te lo consiglio.
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice