Questo (non) è l'ombelico del mondo 🗺
#14
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Quattro anni fa io e il mio collega Caspar avevamo ricevuto un invito per il primo evento della comunità WordPress in Zimbabwe: il WordCamp Harare 2017.
Quattro anni fa, poche settimane prima di partire, un bicchiere rotto cercò di uccidere la mia mano sinistra e mi ritrovai con un arto immobilizzato, in una condizione poco consona per affrontare un viaggio di quella portata.
L'enorme WTF a poche settimane dal viaggio in Zimbabwe
Ad Harare ci andò solo Caspar, ma al suo ritorno — oltre a mangiarmi per l'invidia la mano rimasta sana — lessi tutto d'un fiato i resoconti su Slack e i suoi articoli sul blog aziendale.
Mi piacerebbe avere un backup di quelle conversazioni, ma la memoria digitale viene inghiottita nel nulla al chiudersi degli account aziendali. In quel periodo lavoravamo entrambi per una società WordPress che produce applicazioni per migliorare le prestazioni dei siti web (velocità, conversione, fidelizzazione clienti, ecc.).
La filosofia dell'ottimizzazione delle prestazioni web, per fartela brevissima, si basa sull'assunto che avere un sito che carica in più di 3 secondi sia un problema, perché le persone lo abbandonano subito. Lo dice Google. E se lavori con il web, Google docet, ahimé.
E allora via di tecniche di ottimizzazione, software e decine di altre strategie super tecniche. Discorsi detti e ridetti, rivolti a un pubblico che può permettersi dispositivi elettronici da centinaia di euro e connessioni internet veloci e stabili a basso prezzo.
Peccato che...
Non sono dinamiche valide dappertutto
Di ritorno da Harare, Caspar lo spiegava bene anche in un articolo del suo blog personale (è in tedesco, per cui grazie al traduttore del browser che mi aiuta a interpretarlo):
«Giovedì sono atterrato all'aeroporto internazionale di Harare intorno alle 17:30 per partecipare al WordCamp.
Il mio lavoro: condividere informazioni ed esperienze sulle prestazioni web con la comunità WordPress di Harare, in un Paese in cui il 98% di tutte le visite ai siti web proviene da un telefono o tablet.»
Il modo di navigare sul web che consideriamo "normale", in Zimbabwe cambia radicalmente: le persone di solito non navigano dai loro computer, ma quasi tutto il traffico internet (il 98%!) passa da dispositivi mobili.
Oltretutto, in quel novembre 2017, lo Zimbabwe stava passando per un momento di transizione importante che sarebbe culminato il 15 novembre, con il colpo di Stato che mise fine alla presidenza quarantennale di Robert Mugabe. Erano giorni convulsi, durante i quali salì alle cronache anche il caso di Martha O'Donovan, produttrice della rete televisiva locale Magamba Network, accusata di sovversione per aver insultato il presidente Mugabe su Twitter. Magamba Network produce contenuti satirici distribuiti su Facebook e YouTube con l'obiettivo di stimolare l'attivismo e aprire lo spazio democratico in Zimbabwe, e gestisce anche il co-working in cui si svolgeva il WordCamp Harare.
Continua Caspar:
«La mia presentazione "Siti web veloci e come realizzarli" si basa sul concetto chiave della "dimensione della pagina" (ndr. più una pagina web è pesante, più è lenta).
Per mesi, prima di partire, ho studiato il mercato dei telefoni cellulari in Zimbabwe e nella mia presentazione ho cercato di attenermi alla situazione generale della rete in questo Paese. Dopotutto, cosa otterrebbero le persone presenti al WordCamp se parlassi di ottimizzazione delle prestazioni web usando come riferimento l'Europa occidentale o gli Stati Uniti?
In Zimbabwe, i dati mobili vengono fatturati in megabyte. Per esempio, il mio pacchetto EcoNet di 650 MB costa 10 USD ed è valido per 7 giorni. Ma esistono anche tariffe molto più care dove il singolo megabyte costa fino a 10 centesimi.
L'accesso gratuito al web non è la regola in Zimbabwe. Sto imparando molto dalle conversazioni con le persone: la maggior parte di loro usano bundle WhatsApp o Facebook a basso costo sui loro telefoni. Questo limita l'uso di internet da mobile a queste due app.
Se te lo puoi permettere, puoi anche acquistare un tipo di DSL satellitare per la tua casa (le linee di rete fissa sono disponibili solo per le aziende più grandi).»
Il concetto di sito web, insomma, in Zimbabwe assume connotati diversi. Il grosso delle attività economiche sul web si muove dentro i confini di Facebook e WhatsApp. Un fatto che diventa centrale in un Paese in cui la libertà digitale è spesso minacciata.
Questo mette in difficoltà Caspar, che ammette:
«Mi ritrovo in equilibrio precario tra lo spiegare lo svantaggio de facto dello Zimbabwe per via del prezzo dei megabyte ed evitare le insidiose trappole della retorica degli aiuti allo sviluppo, dove un uomo bianco dell'Europa centrale, il cui concetto di Africa è stato plasmato nella prima infanzia dalle campagne di "Brot für die Welt" (ndt. "Pane per il mondo"), potrebbe facilmente navigare alla cieca. Quanto sarebbe imbarazzante!»
Di quel periodo ricordo la scomoda realizzazione che la narrativa che portavamo avanti — come azienda e comunità WordPress — su un web democratico, rapido e accessibile per chiunque, valeva solo per una ridotta porzione di mondo.
E non perché, oltre i confini di un certo occidente privilegiato, il web non sia un altrettanto importante veicolo di opportunità e condivisione: ma perché, semplicemente, funziona in modo diverso.
Solo che non ci eravamo mai posti il problema.
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Etnocentrismo
L'ispirazione per questa newsletter mi è venuta leggendo quella di Desirée Bela-Lobedde, scrittrice e attivista afrodiscendente di Barcellona.
In uno degli ultimi episodi della sua newsletter, Bela-Lobedde si concentra sul significato di eurocentrismo ed etnocentrismo:
«L'etnocentrismo è il pregiudizio che induce una persona ad analizzare il mondo con i propri parametri culturali e, da lì, arrivare a considerare che il suo gruppo etnico è più importante e che, in generale, la maggior parte degli aspetti della sua cultura sono superiori a quelli altrui. L'etnocentrismo comprende molte questioni: lingua, costumi e altre espressioni culturali, religione o credenze, ecc.
[...]
All'interno dell'etnocentrismo, in Occidente domina l'eurocentrismo, cioè l'interpretazione (e il giudizio, ovviamente) della realtà mondiale attraverso il prisma e l'esperienza dell'Europa occidentale. Ed è questo che l'altro giorno ho ascoltato in un programma radiofonico: l'eurocentrismo nella sua forma più pura.
Nel talk show parlavano del fatto che una parte significativa della popolazione non vaccinata in Spagna è composta da persone migranti. E convenivano sul fatto che una delle ragioni per i bassi tassi di vaccinazione tra la popolazione migrante sia la barriera linguistica. Questo presenta diversi problemi.
[...] Quando queste persone parlano di bassi tassi tra la popolazione migrante, a quale popolazione migrante si riferiscono? Si riferiscono alla popolazione migrante proveniente da altri Paesi europei? Si riferiscono alla popolazione migrante proveniente da Paesi del sud globale? Ascoltando quello che dicevano, sembra si riferissero soprattutto a questo secondo gruppo.
Lo dico perché all'interno del fenomeno della migrazione si stabiliscono delle categorie: persone straniere e persone migranti. E sembra essere ampiamente assunto che le persone straniere sono quelle che migrano dall'Occidente o dal Nord globale; e i migranti sono coloro che migrano dai paesi del Sud globale. Ciò che viene richiesto a un gruppo o all'altro è molto diverso.
Le persone che emigrano dai territori del Sud globale non sono desiderate, perché vengono a rubare il lavoro (sic) della popolazione spagnola. E quando ormai sono qui, sono tenute a integrarsi (qualsiasi cosa si intenda con l'uso improprio della parola integrazione). Della popolazione intesa come straniera, invece, non si diffida e di solito non viene interpretata come se fosse qui a rubare il lavoro. Non è quello che diciamo degli inglesi, dei tedeschi o degli svedesi.
La barriera linguistica mi sembra usata solo quando conviene: a seconda dell'origine della persona, la lingua può essere un problema oppure no.»
Se capisci lo spagnolo, ti consiglio di iscriverti alla newsletter di Desirée Bela-Lobedde o di seguirla sui social.
Altre cose interessanti da leggere e vedere
Il canale YouTube di Magamba TV, prodotto da Magamba Network di cui ti parlavo poco fa. Satira, spettacoli comici, show musicali: uno sguardo freschissimo sullo Zimbabwe del 2021 (in inglese).
L'Africa non è un Paese, è un continente. Ti sembra ovvio? Eppure nella comunicazione mainstream il termine Africa gira spesso in modo molto improprio e stereotipato.
Mi piace molto il modo in cui lo spiega Iwani Mawocha, doppiatrice e modella zimbabwese che vive a Singapore:
Che poi, hai mai visto quanto è davvero grande l'Africa? Stupisciti con questa mappa.
Un saggio che ho letto l'anno scorso e mi è piaciuto un sacco: Cross-Cultural Design, di Senongo Akpem. Si parla di design cross-culturale, utile anche a chi non progetta siti internet, ma vuole capire meglio le persone che navigano sul web.
Hai mai pensato alla visione etnocentrica che il nome di chi abita in un determinato Paese (o etnico, per dirla con l'onomastica) porta con sé?
È il caso del termine americano e, in generale, della sineddoche America per parlare di Stati Uniti.
Se in italiano il quesito ce lo poniamo molto poco, nei Paesi ispanofoni la posizione è piuttosto chiara. In castigliano, per esempio, per parlare di Stati Uniti si usa Estados Unidos, quasi mai América.
La Real Academia Española lo ribadiva anche nella definizione di América inclusa nel Diccionario panhispánico de dudas (che però non si aggiorna dal 2005).
Le persone negli Stati Uniti cadono spesso dal pero, quando si fa loro presente la questione. Però di articoli non ne mancano. Cosa significa davvero America?, si chiede Karina Martinez-Carter in questo pezzo del 2013 che colleziona diverse opinioni di statunitensi di prima e seconda generazione:
«In Latin America, "American" means anyone from the American continent. U.S. citizens claiming the word are considered gauche or imperialist. So what's the solution?»
Personalmente, la mia soluzione è di mantenere sempre la distinzione ben chiara. Uso Stati Uniti e statunitensi, ed evito la sineddoche. Ammetto di dover ringraziare il mio compagno messicano, con il quale sviscerammo la questione nei primi tempi della nostra relazione. 💛
Se vuoi fare un breve tour storico della parola américano e della diatriba terminologica tra spagnolo e inglese, questo articolo di BBC Mundo fa al caso tuo (è in spagnolo):
«Autori, cantanti e poeti hanno fatto parte di questa resistenza. José Martí, Pablo Neruda, Nino Bravo, Mercedes Sosa e Calle 13 sono alcuni dei personaggi pubblici che hanno usato la loro arte per riappropriarsi del termine ‘americano’».
Beh, visto che l'articolo precedente li cita, non ho potuto fare a meno di andare a riascoltare una canzone che mi fa sempre venire la pelle d'oca: Latinoamérica, di Calle 13 con Totó La Momposina, Susana Baca & María Rita.
Ti metto un link anche al testo e alla sua traduzione.
Il video è questo e mi fa commuovere ogni volta:
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice