Avevo qualche schwassolino nella scarpa 🥾
#15
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Per capire se i media italiani hanno deciso di alzare un nuovo polverone sull'uso dello schwa come soluzione di italiano inclusivo, mi basta aprire Google Analytics e osservare i picchi di traffico organico sul mio sito web.
Più di un anno fa ho scritto un pezzo che si intitola Perché ho deciso di usare lo schwa inclusivo (e magari potresti provarci anche tu): è diventato l'articolo più visitato e commentato del mio blog ma anche l'unico su cui devo moderare i commenti, eliminando quelli che contengono insulti.
Come ha fatto questo segno intervocalico a diventare il vessillo nemico contro cui scagliarsi in nome della "purezza della lingua"?
Perché una delle argomentazioni più ostili contro l'uso dello schwa è quello che lo considera "una soluzione calata dall'alto", dunque inaccettabile pedina dell'esercito del politicamente corretto?
Dov'è questo alto?
Chi lo governa?
Non saranno mica i soliti poteri forti?
Ripetiamolo insieme
Negli ultimi sette giorni, ho parlato due volte di schwa in (virtual-)pubblico.
Una su Instagram, durante una diretta molto partecipata con Fiorella Atzori di Sgrammaticando, e una sul bel palco YouTube che ho condiviso con Flavia Brevi di Hella Network e il team di Fuzzy Brains.
Sono state entrambe due belle chiacchierate, animate, allegre, ricche di spunti, e lo schwa è stato (per fortuna) solo uno dei tanti argomenti su cui ci siamo soffermate.
Confesso però che parlare di ə inizia ad annoiarmi un po'. Non perché ritengo sia un tema noioso (tutt'altro!), ma perché è un argomento che viene così bistrattato dall'opinione pubblica che forse è il caso di respirare a fondo e allargare lo sguardo.
Ok, il punto è che mi urta, mi urtaaaa, vedere come l'equivalenza "linguaggio inclusivo" = "schwa/asterisco" sia quella che sembra avere la meglio nel dibattito pubblico generalista.
Possiamo ripeterlo insieme?
Lo schwa non è LA soluzione di linguaggio inclusivo.
È una proposta.
Un esperimento.
Un'aggiunta, non una sostituzione.
E non è nemmeno una proposta recente.
Lo schwa se ne stava buono buono e da tempo immemore al centro dello schema vocalico dell’alfabeto fonetico internazionale...
Fonte: Wikimedia Commons, Grendelkhan, Nohat, CC BY-SA 3.0
...quando qualcunə ha pensato che potesse essere una soluzione impattante per sfidare il binarismo di genere della nostra lingua e rendere parte del discorso tutte quelle persone con un'identità di genere non binaria e/o fluida.
Le prime considerazioni sull'uso dello schwa come desinenza di genere neutro risalgono ad aprile 2015 e si trovano in un Google Doc pubblico, che poi convergono in quello che oggi è il sito italianoinclusivo.it
Le prime adozioni spontanee dello schwa compaiono su forum "nati dal basso" ad agosto 2015.
È una soluzione che, non l'ho mai nascosto, a me piace molto.
Lo posso scrivere a mano ma anche digitalmente (su desktop e sui sistemi iOS e Android).
Lo posso pronunciare: non sempre mi ricordo né riesco a vincere l'abitudine, ma farlo rientra nelle mie possibilità .
Lo trovo uno strumento politico e potente di deviazione dalla norma linguistica; uno dei modi esistenti per nominare un problema più ampio, per ampliare l'immaginario e ricordare che al mondo esistono anche persone che non si riconoscono nel binarismo di genere.
Usare lo schwa non è obbligatorio (e, pur non essendo linguista né veggente, credo che non lo diventerà mai).
Non è nemmeno l'unica opzione se vogliamo evitare il maschile sovraesteso che la grammatica italiana considera la norma.
A giugno dell'anno scorso, Vera Gheno raccoglieva su un post di Facebook molte alternative:
Lo schwa non è una soluzione perfetta, tutt'altro, ed è bene non dimenticarlo.
Può diventare un ostacolo per persone neuroatipiche, per persone cieche e ipovedenti che usano lettori di schermo o per chi, semplicemente, non ha mai visto questo simbolo e non lo sa interpretare.
Comunicare in ottica inclusiva significa anche considerare le difficoltà che le nostre scelte possono generare.
Le caratteristiche del contesto in cui ci troviamo a comunicare dovrebbero sempre avere la priorità .
Per questo motivo l'uso che faccio dello schwa è limitato e circoscritto.
Ogni tanto lo uso in questa newsletter, ma contestualizzo questa scelta nell'email di benvenuto che spedisco a chiunque si iscriva a Ojalá.
Compare poi nella mia comunicazione social, quasi esclusivamente nei sottotitoli alle mie storie parlate su Instagram.
Per capire quali sono i limiti attuali di questa soluzione, puoi dare un'occhiata al paragrafo sull'accessibilità nell'articolo che citavo all'inizio.
Insomma, non so se condividi la mia stessa stanchezza, ma sogno il giorno in cui, anche in Italia, il linguaggio inclusivo verrà considerato nella sua meravigliosa complessità : cioè come uno strumento di comunicazione sfaccettato, a cui non servono tifoserie ma persone pronte ad ascoltare e a mettere in pratica quello che imparano.
E non perché si tratta del trend del momento, ma perché comunicare come esseri umani rispettosi dei vissuti altrui dovrebbe, semplicemente, essere la priorità .
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Linguaggio inclusivo
O meglio, linguaggi inclusivi, al plurale.
Il dizionario Oxford Languages definisce l’inclusività come la tendenza a estendere a quante più soggettività possibili il godimento di un diritto o la partecipazione a un sistema o a un’attività .
Di conseguenza, un linguaggio inclusivo aiuta a raggiungere questo obiettivo: partecipare all’inclusione di più persone possibili nei diritti, sistemi o attività sociali.
Per me, il concetto di linguaggio inclusivo è legato a quello di libertà . Perché?
Perché il linguaggio inclusivo è libero da parole, frasi o toni che riflettono opinioni pregiudizievoli, stereotipate o discriminatorie verso determinati gruppi di persone.Â
Questo significa che, quando scegliamo di comunicare in modo inclusivo, le nostre parole sono libere da:
Stereotipi di genere e pregiudizi sessisti.
Espressioni razziste.
Discriminazioni delle persone in base all’età (quello che in inglese si definisce come ageism).
Discriminazioni abiliste (cioè quelle riferite alle persone con disabilità ).
Stereotipi classisti.
Ed entrano a pieno titolo sotto l'ombrello del linguaggio inclusivo anche tutte le tecniche di comunicazione accessibile di cui parlo spesso in questa newsletter.
(Trovi molti più dettagli nel mio articolo Linguaggio inclusivo: perché non è solo una questione di genere.)
Negli ultimi tempi, anche il termine inclusivo viene ogni tanto contestato.
La definizione del verbo includere, infatti, è «far rientrare qualcosa o qualcuno in un numero, in una serie, in un gruppo»: inclusivo fa pensare al risultato di un'azione attiva, una sorta di concessione, che le persone parte di un insieme (si suppone maggioritario o più potente) compiono nei confronti di altre che ne sono escluse.
Per questo si ricorre sempre più spesso ad aggettivi alternativi da abbinare al linguaggio, come esteso, ampio, aperto, o all'espressione di convivenza delle differenze coniugata da Fabrizio Acanfora.
Credo siano tutte ottime soluzioni per ampliare il nostro modo di esprimerci sul tema.
Mi piacerebbe comunque spezzare una lancia a favore del termine inclusivo, che secondo me continua ad avere un potere innegabile nel denunciare il carattere intrinseco della società in cui ci muoviamo.
Possiamo forse negare di vivere in una realtà fondata sull'esclusione?
Credo sia ancora importante tenere i riflettori puntati (e puntati forte) sui fattori che rendono il nostro un mondo sistematicamente esclusivo, dove ancora vengono offuscate le presenze e le voci di collettività marginalizzate, come se fossero polvere da nascondere sotto al tappeto.
Come dice anche Virginie Despentes in una recente intervista al quotidiano spagnolo El Diario:
«Le ossessioni del nostro sistema capitalista sono l'esclusione e la competitività : escludere interi settori economicamente o politicamente. C'è il timore reale di essere esclusi, perché l'esclusione, quando avviene, è più totalizzante che in passato.»
In questo contesto, che lo vogliamo o no, parlare di inclusione è ancora necessario, anche in riferimento al linguaggio.
Quello che possiamo impegnarci a fare, magari, è non caratterizzare come inclusivo qualsiasi evento/comunità /programma/discorso che non lo è davvero.
A proposito di linguaggi inclusivi
Sono vettori di linguaggio inclusivo anche gli apparentemente piccoli elementi che compongono i prodotti digitali che usiamo ogni giorno.
Le icone, le emoji, le opzioni di un modulo di iscrizione, i testi alternativi che si trovano (o dovrebbero trovarsi) dietro ogni immagine che carichiamo su siti web e social network.
Di testi alternativi, e del loro affascinante legame con le strategie di accessibilità e di copywriting inclusivo, parlerò al WordCamp Italia 2021.
L'appuntamento è per venerdì 22 ottobre alle 15:40 sui canali del WordCamp. 🥳
Per partecipare puoi prenotare il tuo biglietto dal sito del WordCamp: è un evento gratuito e accessibile, nel pieno spirito della comunità WordPress.
E sì, puoi partecipare anche se non hai mai usato WordPress: il programma è così variegato che non sarà difficile trovare un argomento che ti faccia venire voglia di saperne di più.
Altre cose interessanti da leggere e vedere
Le lingue modificano il modo in cui guardiamo il mondo? Una riflessione sulla relatività linguistica e il linguaggio inclusivo, tra pensiero e realtà . Di Filippo Batisti per Il Tascabile.
ÂUn asterisco sul genere: come si strumentalizzano le istanze delle soggettività queer. Il titolo dice già tantissimo. Un pezzo ben argomentato di Manuela Manera per Intersezionale.
ÂEven Trigger Warning Is Now Off Limits, di John McWhorter su The Atlantic.
Per questo articolo anticipo un po' di contesto: qualche mese fa, il corpo studenti della Brandeis University in Massachusetts ha pubblicato una guida al linguaggio suggerito all'interno del campus.
La lista sarebbe utile per evitare il linguaggio violento e oppressivo e curare la scelta delle parole nella quotidianità del campus studentesco.
La lista è suddivisa in argomenti: ci sono consigli per parlare di identità di genere, disabilità , fatti violenti, razzismo e appropriazione culturale.
Tra le parole che il corpo studenti della Brandeis University suggerisce di evitare c'è anche trigger warning (espressione che, soprattutto sui social, viene usata come avviso prima di introdurre temi controversi/violenti/sensibili). La guida suggerisce di sostituire l'espressione con content note.
Perché trigger warning fa parte della lista di espressioni da evitare?
Traduco:
«"Warning" può significare che qualcosa è imminente o che accadrà sicuramente, il che può causare ulteriore stress sul contenuto trattato. Inoltre, non possiamo garantire che nessuna persona si senta triggerata durante una conversazione o una formazione; i fattori scatenanti sono molteplici. L'espressione "content note" permette di veicolare lo stesso messaggio e condividere i dettagli sulle informazioni/argomenti da trattare, ma evitando di triggerare chi legge o ascolta.»
Nel suo articolo per The Atlantic, McWhorter, linguista e giornalista, si fa una domanda che propongo anche a te come riflessione finale.
Traduco:
«Secondo la lista della Brandeis University, le metafore devono essere prese alla lettera, in modo che il significato di base delle parole non cambi mai. [...]
Così non dovremmo né esclamare che qualcuno che sta avendo successo is killing it *, né riferirci al fare tentativi con taking a shot **, perché queste frasi possono evocare immagini violente per alcuni ascoltatori.
Ma queste espressioni sono metafore il cui uso effettivo ha troppo poco a che fare con la violenza per essere classificate come linguaggio aggressivo. Dove tracciare la linea di confine?»
* Ndt.: letteralmente "lo sta uccidendo", ma anche espressione idiomatica che significa andare alla grande.
** Ndt.: letteralmente "sparare un colpo", ma anche espressione idiomatica che significa provarci, fare un tentativo.
ÂCredo che su questo tema potrebbe avere molto da dire Eleonora Marocchini, psicolinguista e dottoranda di ricerca in Psicologia e Scienze Cognitive del Linguaggio. Il suo canale Instagram è davvero prezioso, la trovi come @narraction: ha un modo unico di spiegare la linguistica pragmatica anche a chi non conosce bene la disciplina. Puoi ascoltarla conversare di linguaggio inclusivo con Francesco Ferreri in questa puntata del podcast Antropoché?
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice