#55 Siamo nomi, case, lingue.
Le parole liberano ma creano anche scatole, finché non ne troviamo di nuove.
Ho iniziato gennaio con un corso monografico sul concetto di casa.
Cos’è casa, per te?, ci siamo chieste. Cosa vuol dire sentirsi a casa?
E famiglia, cosa significa? Soprattutto per persone simili a me — adulte tra i trenta e i quaranta, magari senza figli, emigrate; noi che abbiamo una rete di persone care che si estende geograficamente tra più Paesi e un’altra rete più piccola e vicina, costruita con gesti e attenzioni quotidiane. Una rete che dà vita a qualcosa senza un nome da dizionario, un nome che la distingua da altri costrutti sociali che invece sì, hanno un appellativo e un riconoscimento comune.
Per me casa, in questo mio quarantunesimo anno di vita, è un divano-letto aperto in sala da pranzo. Aperto per chi non vive qui ma arriva e finisce per passarci la notte; aperto per chi ci viene a trovare da lontano; aperto per le serate di cibo da asporto e film; aperto per le conversazioni pigre che durano ore e per quelle più complicate che durano minuti ma sembrano non finire mai.
Sul divano-letto aperto, da cui — come al solito — scrivo anche questo episodio di Ojalá, mi sento a casa e mi metto in discussione, perché è quello che sono abituata a fare, anche quando sto comoda. Mettermi in discussione è una delle cose che ho imparato a fare a casa.
Ti va di dirmi cos’è casa per te?
Quando siamo in discussione, ci mettiamo in discussione *
Mentre cercavo materiale per il corso, ho ritrovato il blog di Sara Ahmed, ricercatrice e scrittrice britannico-australiana che si muove tra studi femministi, queer e razziali. Nel 2016, Ahmed ha lasciato la ricerca universitaria e si è licenziata dalla Goldsmiths University di Londra per protestare contro la gestione di alcuni casi di molestie sessuali all’interno dell’università.
Nel suo storico blog chiamato “Feminist Killjoys” (femministe guastafeste) c’è un articolo del 2014 che dice (e che traduco dall’inglese, aggiungendo anche un grassetto):
Sto camminando per strada a Cardiff. Un uomo che cammina nella direzione opposta alla mia si ferma. Sembra interessato a me.
A cosa sono, a se sono qualcosa?"Ehi, di dove sei?"
La domanda è posta con una curiosità sorridente. È una domanda familiare, ma è una domanda scomoda. So cosa mi sta chiedendo davvero. Resisto a dare la risposta che mi viene richiesta.
"Australia", dico.
”No, voglio dire le tue origini”, dice lui.
"Sono nata a Salford".Il volto dell'interrogante si piega per l'irritazione.
"Di dove sono i tuoi genitori, allora?"
Sa che so cosa mi sta chiedendo.
Mi arrendo, ho voglia di proseguire."Mio padre viene dal Pakistan".
È tutto. La conversazione è finita. Ho dato la risposta giusta. Ho spiegato da dove vengo, ho raccontato di non essere di qui, di come sono finita ad avere la pelle marrone.
[…]
Venir interrogatə, essere fonte di dubbio, a volte può sembrare una residenza: una domanda diventa qualcosa in cui si risiede.
Risiedere in una domanda può farci sentire di non risiedere nel luogo in cui ci troviamo.
Non sei di qui, no? O forse diventare un “non” è come essere avvoltə da un'affermazione.
Coloro il cui essere è messo in discussione, sono coloro che mettono in discussione l'essere *
Per molti anni, dopo essere emigrata dalla Sardegna nel 2004, ho avuto la sensazione di star perdendo la possibilità di sentirmi parte di un luogo preciso.
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