Il privilegio di andare via 👋
#18
Questa newsletter parla di violenza di genere.
Ciao!
Sono Alice Orrù e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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C'è una canzone del 2006 che non posso fare a meno di cantare ogni volta che la sento.
Si chiama Me Voy e l'ha scritta Julieta Venegas, cantante e compositrice messicana che con questo suo singolo ottenne un enorme successo anche dalle nostre parti.
Ricordo che a me piacque subito, dal primo ascolto di quei miei 24 anni.
Ma poi, con quel giro magico che solo le canzoni sanno fare, divenne anche un mio personale inno al voler andare via e a terminare una relazione lunghissima in cui non mi riconoscevo più.
L'ultima volta che suonò all'improvviso, dagli altoparlanti di un negozio lombardo, decisi che quella sera avrei comprato il biglietto per venire a vivere da sola a Barcellona.
Se non ricordi come faceva la canzone, te la metto qui:
Me Voy, Julieta Venegas, 2006
Julieta Venegas non tergiversa su cosa è giusto o meno fare.
Lei parla per sé, e quel me voy, me ne vado, ha il suono della decisione già presa, su cui è inutile piangere o dubitare.
La potenza di Me Voy, che a un primo ascolto può sembrare un ritornello perfetto per le giornate estive, secondo me sta in questi versi:
No voy a llorar y decir
Que no merezco esto
Porque
Es probable que
Lo merezco, pero no lo quiero, por eso me voy
¡Qué lástima, pero adiós!
Me despido de ti y me voy
¡Qué lástima, pero adiós!
Me despido de ti
Non ho intenzione di piangere e dire
Che non mi merito tutto questo
Perché
Probabilmente
Me lo merito, ma non lo voglio, e per questo me ne vado.
Che peccato, però addio!
Ti lascio e me ne vado.
Che peccato, però addio!
Ti lascio.
Quel me lo merito, ma non lo voglio forse era la chiave di tutto.
Eppure, essere la donna che lascia senza una buona motivazione apparente è ancora incredibilmente difficile.
Poter andare via è un grande privilegio
È un concetto a cui tengo molto.
Andare via, lasciare, mettere il punto a una relazione (ma anche a un lavoro, a un Paese, a un ambiente che ci fa stare male) e aprire un nuovo capitolo di vita è un enorme privilegio.
Io, per esempio, avevo dei risparmi e un conto in banca a mio nome; non avevo figli né un mutuo da pagare; avevo diversi rancori, quello sì, ma anche bei ricordi di lunghi anni insieme che erano arrivati al capolinea per varie ragioni.
Avevo insomma tra le mani tanti fattori che mi offrivano il privilegio di poter preparare le valigie e andare, pur ingoiando i giudizi altrui, gli insulti e i tentativi di manipolazione mentale.
Non vale lo stesso per molte persone; e questo è ancora più sconfortante quando il bisogno di andare via deriva da una violenza di genere.
Quando si parla di violenza contro le donne, le domande che fanno più rumore sono cose come:
Perché non hai denunciato?
Perché non l'hai raccontato a nessuno?
Perché sei rimasta?
Ma non è che hai fatto o detto qualcosa per provocare?
Ma non è che ti sei sbagliata?
Tu, tu, tu, perché non hai agito?
Tu, tu, tu, sei sicura di quello che dici?
Come se agire fosse scontato e sempre possibile.
Come se fosse facile, in una società che tende a colpevolizzare anche quando la violenza la si subisce.
Lo dicono anche i dati ISTAT del 2019:
«Persiste il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza subita.
Addirittura il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole.
Anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire è elevata (23,9%).
[...]
Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false.
Per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”.
Per il 6,2% le donne serie non vengono violentate.»
E poi c'è il tema della dipendenza economica, un fattore che passa ancora molto in sordina.
Riprendo un paragrafo dell'indagine dello scorso marzo realizzata da WeWorld e IPSOS sulla condizione economica femminile in epoca di COVID-19:
«Le principali vittime economiche della pandemia sono le donne, soprattutto se con figli e senza lavoro, che si sono trovate a far fronte a un enorme carico economico, psicologico e di cura. [...]
1 donna su 2 ha visto peggiorare la propria situazione economica, sia al Nord che al Centro e Sud; la quota sale al 63% tra le 25-34enni e al 60% tra le 45-54enni.
1 donna su 2 si dice più instabile economicamente e teme di perdere il lavoro.
Il 60% delle donne non occupate con figli dichiara di aver avuto durante la pandemia una riduzione di almeno del 20% delle proprie entrate economiche, che implica spesso un’aumentata e preoccupante dipendenza: il 51% (1 su 2) sostiene infatti di dipendere maggiormente da famiglia e partner rispetto al passato.»
Tutto questo dovrebbe ricordarci, se ancora non fosse chiaro, che trarre conclusioni sulla vita di coppia e sulle scelte sentimentali altrui è dannoso e foriero di pregiudizi.
In sintesi: meglio tacere, giudicare meno e ascoltare di più.
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Gaslighting
Come si pronuncia?
Tra i tanti inglesismi che ruotano intorno alla comunicazione sulla violenza di genere, ne ho scelto uno che forse è meno conosciuto di altri.
Meno conosciuto in senso terminologico, perché nella pratica si tratta di una forma di abuso frequente nelle relazioni, soprattutto familiari e sentimentali, di qualsiasi orientamento.
Con gaslighting si intende quel tipo di abuso psicologico tramite cui la persona abusante mente e presenta alla sua vittima informazioni false con l'intento di farle dubitare della sua memoria e, molto spesso, della sua salute mentale.
Il termine deriva dall'opera teatrale e poi film Gaslight, thriller psicologico del 1944 diretto da George Cukor in cui recitano Charles Boyer, Ingrid Bergman e Angela Lansbury (al suo debutto cinematografico).
Protagonista della storia è una coppia eterosessuale appena sposata; la trama punta i riflettori su un sistema patriarcale in cui il marito domina la moglie, la etichetta come pazza e isterica e ne sminuisce la dignità con bugie e manipolazioni psicologiche.
Ci sono argomenti che diventano terreno particolarmente fertile per mettere in atto questo tipo di abuso emotivo: la gestione dei soldi, l'intimità sessuale, la famiglia di origine o le abitudini che caratterizzano la relazione tra le persone coinvolte.
Questo articolo di Vox scritto dalla psicoterapeuta Robin Stern spiega bene in cosa consiste il gaslighting e presenta alcune frasi tipiche che, ripetute in un certo contesto, danno forma a questo abuso:
Sei troppo sensibile!
Sei troppo insicurə.
Sembri pazzə, lo sai, vero?
Le tue sono solo paranoie.
Stavo solo scherzando!
Te lo stai inventando.
Non è niente di che.
Ti stai immaginando le cose.
Stai esagerando.
Sei sempre troppo drammaticə.
Non ti agitare così tanto.
Guarda che non è mai successo.
Mi sa che non ricordi chiaramente come sono andate le cose.
Sei istericə.
Nessuno ti crede, perché dovrei farlo io?
Dice Stern:
«Secondo la mia esperienza clinica, molte donne vengono educate a dubitare di se stesse e a scusarsi continuamente per aver dissentito o turbato i loro partner uomini. Per gli uomini, invece, non funziona così.»
Nel suo articolo, Stern si concentra soprattutto sul gaslighting all'interno di relazioni di coppia eterosessuali, ma naturalmente questo tipo di abuso non fa differenze di orientamento sessuale o di struttura familiare. In realtà può anche manifestarsi all'interno di una relazione lavorativa, per dire.
La psicoterapeuta, poi, conclude:
«È importante distinguere il gaslighting dal disaccordo, che è invece comune, e anche importante, nelle relazioni.
Non tutti i conflitti sfociano in gaslighting ed esistono tecniche sane per risolvere i conflitti.
Il gaslighting si distingue perché una delle persone coinvolte ascolta, mentre l'altra nega continuamente la sua percezione, le ripete che ha torto o che la sua reazione emotiva è folle o disfunzionale.»
In italiano di solito si traduce gaslighting con manipolazione psicologica.
Mi piace però anche la traduzione proposta da WordReference: obnubilare, annebbiare la mente.
Una serie tv che mi ha fatto scoppiare il cuore
"I hate Suzie" è una serie tv britannica uscita l'anno scorso e scritta da Billie Piper e Lucy Prebble.
Cosa succede nella vita di una persona quando il suo telefono viene hackerato e vengono diffuse immagini intime che rivelano un tradimento?
E come si evolve la storia se quella persona è anche molto conosciuta?
Suzie Pickles è diventata famosa quand'era adolescente, è stata cantante e ora fa l'attrice di serie tv.
In uno dei momenti più interessanti della sua carriera, il suo telefono viene hackerato e alcune foto intime escono allo scoperto: rivelano una relazione con un misterioso (almeno all'inizio) uomo di cui non si sa nulla tranne che non è suo marito.
Gli otto episodi della serie sono dedicati alle fasi di elaborazione del trauma da parte di Suzie: shock, negazione, paura, vergogna, negoziazione, senso di colpa, rabbia e accettazione.
Nel lasso di tempo di un anno, vediamo Suzie vorticare tra emozioni fortissime che la spingono sempre più in basso, bloccano la sua carriera, le fanno mettere in dubbio tutto.
Credo sia una serie imperdibile per come riesce a raccontare il revenge porn e l'abitudine tossica di colpevolizzare le donne vittime di questo reato.
Ma anche per la narrazione non stereotipata del tradimento, delle difficoltà della genitorialità, dell'ingiustizia patriarcale che in certi contesti libera l'uomo dalle sue responsabilità lasciando tutti i cocci nelle mani della donna.
Ho amato tanto anche la sottotrama legata al personaggio di Naomi, interpretata da Leila Farzad, amica e manager di Suzie. Un esempio? L'incudine che ti cade addosso quando la ginecologa ti dice che stai entrando in perimenopausa prima dei 40 anni.
Altre cose interessanti da leggere e vedere
The Psychology of Victim Blaming, di Kayleigh Roberts, The Atlantic.
Uno studio di Niemi e Young del 2016 suggerisce che quando la copertura di una storia si concentra sull'esperienza e la storia della vittima, anche in modo empatico, la probabilità di dare la colpa a lei invece che alla persona abusante aumenta.
Creazioni Femministe è la campagna di comunicazione in LIS (Lingua Italiana dei Segni) contro violenze e discriminazioni di genere promossa dall'associazione Micce di Bologna.
Il progetto è dedicato alle donne sorde che comunicano in LIS; per loro ora esiste la possibilità di videochiamare la Casa delle Donne di Bologna, denunciare episodi di violenza ed essere assistite in LIS.
È un passo in più per contrastare l'audismo, cioè quella forma di abilismo che discrimina le persone sorde.
Per vedere il video da qui, devi accedere a Vimeo. Tutti i video della campagna sono comunque disponibili nella pagina di Creazioni Femministe, al link che trovi qui sotto.
Per avere più informazioni sul progetto e sulle realtà che hanno collaborato a Creazioni Femministe, ti lascio questo articolo del blog di Comunicattive, l'agenzia creativa che ha curato l'immagine e l'ufficio stampa del progetto.
La campagna "Get Old. Invecchiare è possibile" di EMERGENCY.
Non ti faccio spoiler, guarda il video e dimmi se non è una campagna bellissima:
Get Old. Invecchiare è possibile.
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice