#37 Che parole scegli per parlare dell'isola?
Un episodio in cui parlo solo di stereotipi sulla Sardegna.
Tra spostamenti e impegni familiari ho avuto poco tempo per dedicarmi a questo numero di Ojalá, che è venuto fuori molto personale e un po’ polemico; ci tenevo comunque a scriverlo per mantenere fresche alcune delle riflessioni dei giorni scorsi, risollevate mentre visitavo la mia famiglia in Sardegna.
«Ma cosa ci fai qua al nord? La Sardegna è un paradiso!».
Non riesco a contare quante volte dellə perfettə sconosciutə mi hanno ripetuto questa frase nei lunghi anni in cui ho vissuto nel mezzo della Pianura Padana. Al bancone di un bar, alla cassa del supermercato, a cena da amici, appena il mio accento mi tradiva c’era sempre qualcunə prontə a travolgermi con il racconto idilliaco delle sue ultime vacanze sulla mia isola. La stessa da cui ero scappata a vent’anni per avere opportunità di studio e lavoro che rimanendo in “paradiso” avrei solo potuto sognare.Allə turistə non importa che in Sardegna il tasso di dispersione scolastica e quello di disoccupazione, così come quello dellə giovani che non studiano e non lavorano sia decisamente più alto della media italiana.
Così Benedetta Pintus inizia l’articolo Il vostro paradiso è la nostra casa nell’ultimo numero del magazine quadrimestrale menelique dedicato al Sud.
Sud italiano e Sud globale, ma anche Sud nel suo significato più fluido di aree del mondo subordinate ad altri territori.
Ho letto menelique appena arrivata a casa dei miei in Sardegna, la settimana scorsa. Mi aspettava lì, sulla scrivania della cameretta in cui sono cresciuta; quella che, ogni volta che “scendo a casa”, fa implodere una matassa di ricordi e riesce a spegnere momentaneamente tutto quello che sono diventata per farmi ritornare a essere soprattutto una figlia.
Figlia della mia famiglia, certo, ma anche di un’isola con la quale il discorso è rimasto aperto — burrascoso, nostalgico, incompreso, amorevole, furioso — dal giorno in cui ho deciso di emigrare, nel 2004.
È complicato descrivere il senso di appartenenza e di fuga che mi lega alla Sardegna, non ho ancora trovato le parole adatte. Da anni ascolto e raccolgo le esperienze di persone che come me sono emigrate “in continente” o nel resto del mondo, di chi ha deciso di tornare dopo qualche anno o di chi non è tornata più.
Colleziono parole per ricostruire una narrazione onesta, scevra dallo sguardo di chi l’isola la vive per brevi periodi e solo per questo pensa di sapere bene chi siamo e di cosa abbiamo bisogno “noi sardi”.
L’esperienza raccontata da Pintus su menelique somiglia molto alla mia e a quelle di tante persone sarde che hanno lasciato l’isola per i motivi più diversi.
La mia personale narrazione sulla Sardegna è in divenire e da quando sono emigrata l’ho cambiata decine di volte.
Sono stata un’emigrata nostalgica. Un’emigrata consapevolmente in fuga. Una che un giorno sarebbe voluta tornare. Una che non tornerebbe mai più. Una che fingeva di ridere di fronte alle battute sul mio accento. Una che ha smesso di rispondere con simpatia alle frecciatine puntellate di stereotipi che ora hanno un nome, microinsulti.
«Ecco la sarda, ajó!»
«Però non hai l’accento sardo, lo stai mascherando?»
«Ma la 131 sembra proprio un’autostrada italiana, non me l’aspettavo!»
«Voi sardi vi assomigliate tutti, sarà perché vi riproducete tra di voi?»
«Ma è sicuro visitare il centro dell’isola? Ci sono ancora i banditi?»
«Uf, voi sardi siete troppo permalosi!»
Piccole cose, ti dirai, battute sciocche, dette con superficialità, a cui non vale la pena dare importanza. Forse: a meno che non siano discorsi che hai sentito decine e decine di volte da persone diverse e ormai sei stanca, stanca, stanca di ribattere.
L’incipit dell’articolo di Benedetta Pintus mi ha colpita perché ho riconosciuto un’esperienza comune. Perché così tante persone si sentono in diritto di darmi un parere non richiesto sulla mia scelta di emigrare dall’isola? Perché mi sono ritrovata così spesso a rispondere addirittura a consigli imprenditoriali, come l’intramontabile: «eppure la Sardegna potrebbe vivere di solo turismo!»?
Di quale Sardegna parlano?, mi chiedo ogni volta.
Di certo non della zona in cui sono cresciuta che, come centinaia di altre località sarde, non potrebbe mai vivere di turismo per ragioni geografiche e strutturali. E forse anche per il disinteresse della popolazione locale che conosce le difficoltà di entrare in un settore che, storicamente e nei grandi numeri, è soprattutto appannaggio di investimenti forestieri.
(Ascolta per esempio la puntata del podcast Cemento, scritto da Eleonora Sacco e Angelo Zinna, sulla storia dell’Aga Khan e di come arrivò a comprare la Costa Smeralda).
Difficile spiegare che la Sardegna di oggi è il risultato di una storia lunga e complicata di subalternità; meno male che lo ricorda bene Omar Onnis nel pezzo Io sono sardo e tu? Costruire un’identità per privatizzare un territorio:
Con l’abolizione del feudalesimo e la modernizzazione (leggi: privatizzazione) dell’uso della terra, l’intera economia sarda fu appaltata a gruppi di interesse o avventurieri in cerca di fortuna, quasi sempre forestieri.
La rapacità e le spoliazioni di questo modello economico divennero proverbiali nell’immaginario collettivo. La Sardegna si ritrovò ridotta al ruolo di colonia oltremarina. A poco valse il formarsi delle prime prese di posizione autonomiste e le rivendicazioni di una parte dell’establishment culturale. La subalternità dell’isola era ormai realizzata. Ora andava giustificata. Così come il razzismo nacque in Europa per giustificare il dominio coloniale europeo, così il mito identitario sardo si formò per certificare la necessità della sottomissione e della privatizzazione dell’isola.
E Benedetta Pintus continua (nello stesso articolo che ho citato all’inizio):
Questa prospettiva coloniale noi sardə la vediamo ogni estate nella strumentalizzazione della nostra cultura, la cui presunta arretratezza per secoli ha giustificato la distruzione del tessuto sociale con devastazione delle comunità, stragi e saccheggi, e che ora, svuotata in folklore e decontestualizzata, diventa una merce in più da vendere ai turisti, entusiasti di poter ammirare in agosto mamuthones stremati nei loro abiti tradizionali di pelliccia pensati per i riti invernali di carnevale.
Come spiegare tutto questo in poche parole? Di solito non si può, non ci sono il tempo o il fiato. Io ho spesso preferito tagliare corto e fare la figura della sarda permalosa.
Per una narrazione diversa della Sardegna
Se la conosci, come descriveresti la Sardegna?
Forse ti vengono in mente i topici più in voga: il mare cristallino, le spiagge bianchissime, la sabbia dorata, i paesaggi selvatici, l’ospitalità.
Sì, quei mari cristallini i cui fondali nascondono strati di plastica e ordigni bellici; le spiagge bianchissime da cui puoi ammirare colate di cemento o lussuose terrazze private; la sabbia dorata che in bassa stagione rilascia i rifiuti sotterrati dal calpestio della stagione turistica e i metalli pesanti delle esercitazioni militari.
Sapevi che più del 60% di tutto il territorio italiano adibito a uso militare si trova in Sardegna e viene usato per molti mesi all’anno? Che poco lontano dalle dune di Porto Pino vengono sperimentati nuovi armamenti che esplodono in mare? Che a pochi km dalle spiagge dell’Ogliastra i terreni sono avvelenati dai residui delle esercitazioni del poligono di Quirra (località che prende 4 stelle su 5 su Google Maps grazie ai ricordi nostalgici dei militari che ci hanno lavorato in passato)? Che a Sarroch esiste una delle più grandi raffinerie petrolifere in Europa il cui odore pestifero ti annichila le narici, se ci passi davanti nel giorno sbagliato?
C’è anche anche questo (e molto altro, purtroppo) sotto l’ospitale facciata del “paradiso” sardo, ma è facile ignorarlo se non si vive sull’isola per 12 mesi all’anno. Come scrive Benedetta Pintus:
Lə turistə pretendono il “paradiso” e per ottenerlo sono dispostə a pagare un prezzo molto alto e non si aspettano niente di meno, perché da decenni la Sardegna gli viene venduta esattamente così: come un enorme villaggio vacanze estivo.
Un’altra volta, forse, prenderò il coraggio a due mani per parlare della narrazione che noi sardi facciamo sull’isola e degli stereotipi che aiutiamo a propagare. Intanto ti lascio delle letture per approfondire qualche retroscena della vita quotidiana in Sardegna:
Autunno in Barbagia, tra opportunità e inganno di sé stessi e di chi visita, un articolo di Danilo Lampis che smonta l’utilità degli eventi che, in bassa stagione, ripropongono un’immagine folcloristica e artificiosa della Sardegna “tradizionale”. Una storia imbellettata che ci raccontiamo da troppo tempo anche noi isolane e isolani.
Andare in Sardegna è sempre più complicato e costoso (Il Post), una storia di quotidiana inaccessibilità per chi in Sardegna vive o ha famiglia.
Perdas de Fogu, il romanzo/inchiesta di Massimo Carlotto sulla regione ogliastrina di Quirra, dove dal 1956 si trova il poligono di addestramento militare che avvelena il territorio e chi ci abita.
A Foras, l’assemblea composta da comitati, collettivi, associazioni, realtà politiche e individui che dal 2016 si oppongono all’occupazione militare della Sardegna.
Il corpo del reato, canzone di Iosonouncane, cantautore di Buggerru, che qui racconta la provincia che non cambia mai e a volte ti uccide:
Allora hai deciso, sei proprio convinto di fare qualcosa
qualcosa di originale, non vuoi tornare
Quante volte questa frase, quante.
Per questo lunedì ho finito, ci sentiamo tra una festività e l’altra!
Se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza problemi.
Ti basta rispondere a questa email.
A presto,
Alice
Molti sentimenti in comune, io sono un'emigrata (in Scozia) che viene dalla Campania, e con Napoli ho sempre avuto un complesso rapporto di amore/odio, ma un odio che è più che altro rassegnazione e tristezza. E poi con la nostalgia che mi attanaglia quando passa molto tempo prima di rivederla.