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#32 L'altra faccia delle storie

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#32 L'altra faccia delle storie

Il Memoriale di Caen, la narrazione della guerra e della colonizzazione, più altre cose che non potrò capire mai.

Alice Orrù
Sep 19, 2022
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#32 L'altra faccia delle storie

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La facciata frontale del Memoriale di Caen: un parco un po' secco per la calura estiva e diverse bandiere internazionali che sventolano all'entrata. Le mura sono grigio chiaro e lisce, come un unico blocco di cemento.

A metà agosto ho visitato il Memoriale di Caen in Normandia, uno dei più importanti musei dedicati alla storia della seconda guerra mondiale e alle sue conseguenze sia in Europa (con un ovvio focus sulla Francia) che in altri Paesi del mondo.

Il Memoriale viene inaugurato nel 1988 per volere di Jean-Marie Girault, allora sindaco di Caen. Nel 1944, Girault visse insieme alla sua famiglia i bombardamenti strategici della città da parte delle truppe alleate inglesi e statunitensi. In quei giorni quasi il 70% degli edifici di Caen furono rasi al suolo, morirono circa 3000 persone e la cittadinanza si rifugiò nella Abbaye aux Hommes, l’abbazia di Saint-Étienne.

Il Memoriale ripercorre quegli anni di guerra e gli sguardi delle persone che l’hanno vissuta. Non solo soldati, ma anche famiglie, personale medico e infermieristico, scolaresche, persone addette alla comunicazione — sia di propaganda che di resistenza.

Manifesto verticale che raffigura un soldato con uniforme tedesca che sorride e tiene in braccio una bambina che mangia qualcosa di simile a pane e marmellata. Altre due bambine sono a fianco al soldato e lo guardano con ammirazione. Lo slogan dice "Populations abandonnées, faites confiance au soldat allemande".
Foto mia scattata ad agosto 2022. Il manifesto dice: “Popolazioni abbandonate, abbiate fiducia nel soldato tedesco”.

Stampato e distribuito su larga scala fin dall'inizio dell'occupazione tedesca, nel 1940, questo manifesto fu il primo pubblicato in Francia dal regime nazista come parte della sua propaganda. È un invito alla fiducia, a sorridere di fronte ai tedeschi in divisa che proteggeranno i bambini e il territorio tutto.

La Normandia fu la regione francese tra le più martoriate dalla seconda guerra mondiale. L’avevo sempre associata a grandiosi eventi storici, rappresentati in decine di film, come gli sbarchi del D-Day nelle spiagge di Omaha e Utah Beach.

La lunghissima spiaggia di Omaha Beach in un pomeriggio di agosto: il cielo è azzurro e attraversato da poche nuvole, il mare si scorge in lontananza. Sulla spiaggia diverse persone prendono il sole. Sulla sinistra, tre alte sculture astratte in metallo ricordano i caduti del D-Day.
Omaha Beach in un pomeriggio qualsiasi di agosto.

Nei dintorni di quelle spiagge, e nelle altre tre che fecero parte dell’operazione Overlord, morirono in 24 ore migliaia di soldati e circa 3000 civili.

78 anni dopo, Omaha Beach è una località turistica molto apprezzata da famiglie francesi e inglesi. In un caldissimo pomeriggio di agosto, decine di bambini sguazzano nei piccoli ristagni che si formano in spiaggia per le mareggiate; alcune persone hanno piazzato gli ombrelloni tra le sculture in metallo che ricordano i caduti; due uomini seduti a riva raccolgono manate di sabbia bagnata e se la spalmano sul corpo, come fossero fanghi benefici.
Penso alle polveri belliche e ai residui metallici — di qualsiasi materiale essi siano fatti — sciolti tra quei granelli usati come unguento. Mi avvicino straniata all’acqua, ho ancora fresche in testa le immagini del Memoriale, la spiaggia blindata da trincee spinate e navi da combattimento, la corsa sotto le bombe di migliaia di soldati infradiciati e carichi di armamenti.

«Che impressione vi ha fatto vedere Omaha Beach così?», chiede il mio amico Romain a cena, pochi giorni dopo.

Rumore di unghie che stridono su una lavagna, gli rispondo.
Ma anche: che cosa ne posso sapere, io, che quei posti li avevo visti solo in remake cinematografici e immaginati cristallizzati in foto in bianco e nero?
Che opinioni posso avere sulla memoria storica e sulla traiettoria turistica di luoghi in cui ho messo piede per la prima volta nel 2022?

A Obama Beach, così come tra le sale del Memoriale di Caen o tra le tombe dei cimiteri militari che costellano le strade della Normandia, la storia è un racconto costruito su migliaia di sguardi diversi, frutto di versioni che si contraddicono e riassestano in un percorso molto meno lineare di quello che ricordavo dai miei libri di storia.
I vincitori e i vinti, gli alleati e i nemici, sono etichette da appuntare nei libri e nei trattati geopolitici. Ma la gente che quei libri non li ha scritti potrebbe raccontare qualcosa di diverso.

Alcune delle fotografie del Memoriale lo testimoniano con una trasparenza spiazzante: liberatori che prima di liberare uccidono; alleati che diventano pericolo; nemici che si trasformano in amanti. E centinaia di altri frammenti di vita da cui trapelano storie meno raccontate rispetto a quella con la S maiuscola, su cui la fettina di mondo in cui viviamo è riuscita a trovare un accordo.

Il potere è la capacità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di renderla la storia definitiva di quella persona. [...] La storia singola crea degli stereotipi e il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Fanno sì che una storia diventi l'unica storia,

diceva Chimamanda Ngozi Adichie nel suo TedTalk del 2009, I pericoli di una storia unica.

Come cambiano il nostro sguardo e le nostre opinioni quando viviamo gli eventi in prima linea rispetto a quando li studiamo sui libri di scuola. O li guardiamo in tv, romanticizzati da Netflix o drammatizzati dal tg. O li scrolliamo sui social, in un loop asettico di devastazione, gattini, balletti e spiegoni.

Mini glossario della comunicazione inclusiva

Decolonizzazione

La Treccani definisce la decolonizzazione come

il fenomeno storico della dissoluzione dell’assetto coloniale imposto alla quasi totalità dell’Africa, a buona parte dell’Asia e a territorî delle Americhe. Con riferimento a singoli paesi, indica sia il processo inverso a quello della colonizzazione, attraverso il quale un territorio sottoposto a regime coloniale acquista l’indipendenza politica, sia il processo con cui uno stato ex-coloniale, che abbia ottenuto l’indipendenza politica, tende a raggiungere un’autonomia più completa sottraendosi a ingerenze economiche e tecnologiche da parte del paese ex-colonizzatore.

Riguarda anche diversi territorî dell’Oceania, aggiungerei, non so perché la Treccani non li inserisce. A parte questo, la definizione mi fa pensare a un fenomeno cristallizzato in una foto b/n, come un evento storico-politico da raccontare nei musei. E invece è un percorso sociale complesso, lungo e ancora in divenire:

La colonizzazione non è solo fisica. È anche culturale e psicologica perché determina quali sono le conoscenze privilegiate. In questo senso, la colonizzazione non ha solo un impatto sulla prima generazione di popolazioni colonizzate, ma crea problemi che durano nel tempo.

La decolonizzazione cerca di invertire e porre rimedio a questa situazione attraverso l'azione diretta e l'ascolto delle voci dei popoli delle Prime Nazioni. […] Oggi si parla di decolonizzazione anche in termini di giustizia riparativa attraverso la libertà culturale, psicologica ed economica,

come dice questo articolo di due anni fa di The Conversation.

Mi piace molto anche la definizione di Aotearoa liberation league, progetto di “giustizia decoloniale per Papatūānuku (ndt. Madre Terra per i Māori) e tutti i suoi abitanti”:

Nel contesto moderno, decolonizzazione vuole dire riconoscere che viviamo in una costruzione coloniale piuttosto che “tornare a una società precoloniale”. Vuol dire riconoscere che le cose stanno così non per caso, ma perché una determinata ideologia ha sistematicamente cancellato le altre per imporsi come “normale”. Quando un’ideologia viene normalizzata, è difficile immaginarne un’altra […]: inizia a profilarsi l’idea che “si è sempre fatto così” e l’origine della colonizzazione – che nel nostro caso è stata molto violenta – si dimentica facilmente.

Qui trovi il resto dei video di Aotearoa liberation league.


Priya Atwal è una storica, autrice e ricercatrice britannica all’Università di Oxford. Studia i temi dell’imperialismo, della monarchia e della politica culturale tra Gran Bretagna e Sud-Est asiatico. In questo tweet condivide una serie di articoli pubblicati dopo la morte della regina Elisabetta:

Twitter avatar for @priyaatwal
Dr Priya Atwal @priyaatwal
All too alarming is the silencing of holistic & critical reflection of the late Queen's reign/role of the monarchy under a mawkish, oppressive rendering of 'respect' & 'mourning'. Where is the space to deal productively with everyone's conflicted feelings & ideas? 3/14
1:50 PM ∙ Sep 17, 2022
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Non dimenticherò mai la visita all'Arco dell'Indipendenza in Ghana. È la nazione orgogliosa di essere stata il primo popolo nero africano a liberarsi con successo dall'impero, ed eccomi di fronte al punto focale di quella libertà: un arco con una simbolica stella nera. Quando ho guardato all'interno, ho dovuto fare i conti con la realtà: una targa dedicava questa libertà a nientemeno che la Regina Elisabetta II.

Per me è stata una lezione sul fatto che, anche nella nostra libertà, non siamo davvero liberi. Ci si aspetta che siamo grati per essere stati colonizzati. Siamo razzializzati ma dobbiamo ancora dimostrare che il razzismo esiste. Anche se le persone nere britanniche continuano a morire per mano dello Stato, come la vittima disarmata Chris Kaba, le notizie sul lutto della comunità nera sono oscurate dalla storia più importante del lutto reale. Nella misura in cui si riconosce che le vite nere contano, non è certo questo il momento per farlo.

Scrive Afua Hirsch per il Guardian.


E in Italia, come si parla di colonizzazione e decolonizzazione?

L’eredità coloniale, tralasciando gli storici che se ne sono occupati come Del Boca, è sempre stata trascurata, un rimosso culturale, qualcosa di non raccontato. Se pensiamo che in Italia abbiamo avuto solo un romanzo dedicato alla questione coloniale – Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Da lì in poi il vuoto. A livello di pop culture si è dovuto aspettare l’arrivo dei figli dei migranti per raccontare quella storia: Gabriella Ghermandi, scrittrice italo-etiope, per fare un nome.

Lo scrive la scrittrice Igiaba Scego in questa intervista per 31Mag.

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Tre estratti da letture e visioni che ho apprezzato nelle ultime due settimane:

1.

Per poter essere liberi di creare la propria identità, bisogna avere a disposizione un linguaggio attraverso il quale potersi autodefinire e parlare di sé stessi e per sé stessi. Purtroppo per gli africani e gli afrodiscendenti presenti in Italia questo non è possibile perché per parlare di noi abbiamo a disposizione solo un linguaggio che è stato stabilito da qualcun altro molto tempo prima che noi potessimo decidere se quei termini ci andavano bene o meno.

Continua ad ascoltare Denise Kongo nel video del progetto Stop Afrofobia, Costruire e narrare l'afrodiscendenza in Italia tramite parole nuove.


2.

Di recente ci ha colpito la polemica sulle foto del party a cui ha partecipato la premier socialdemocratica finlandese Sanna Marin, attaccata da stampa e detrattori per aver ballato e bevuto a una festa privata e che per “discolparsi” si è anche sottoposta a un test anti-droga, risultato negativo.

Sicuramente, in quanto donna, la veemenza di un attacco che riguarda più il profilo sociale e di genere che istituzionale dell’individuo si è abbattuta su di lei con maggior fragore rispetto a quanto non sarebbe accaduto a un suo omologo dotato di gonadi, ma a noi ha fatto specie che si siano spesi fiumi d’inchiostro, sui social e sui giornali, su questo incidente […] e non una parola, per lo meno nella nostra bolla, sia stata proferita rispetto alle scelte politiche di carattere internazionale attuate dalla Marin in questi ultimi mesi, tra le quali ci è sembrata piuttosto cruciale la decisione di abbandonare la storica neutralità della Finlandia per aderire alla Nato, in previsione di una possibile minaccia russa al confine (la Svezia ha seguito a ruota questo iter ratificato da Biden ai primi di agosto).

Scrivono Giulia Morelli, Maria Lucia Schito e Silvia Scognamiglio nell’ultimo episodio di Mis(S)conosciute, la newsletter sulle scrittrici non troppo note dell’universo letterario contemporaneo.


3.

«A 19 anni e 4 mesi, Carlos Alcaraz è il più giovane numero 1 della storia del tennis mondiale», ha annunciato con orgoglio la stampa nazionale e internazionale dopo la vittoria del tennista spagnolo agli US Open.

Peccato che non sia vero. Martina Hingis ha raggiunto la posizione n. 1 all'età di 16 anni nel 1997. Monica Seles aveva 17 anni nel 1991. Anche Tracy Austin aveva 17 anni quando raggiunse la stessa posizione nel 1980. Stefani Graf e Maria Sharapova avevano 18 anni quando hanno raggiunto la vetta, rispettivamente nel 1987 e nel 2005. Ancora una volta il maschile viene considerato come universale, o l'universale viene interpretato al maschile.

Scrive Ana Requena Aguilar, caporedattrice della sezione Genere de El Diarío, nella newsletter settimanale Cuarto Propio.

Per questo lunedì ho finito. Se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza problemi.
Ti basta rispondere a questa email.

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A presto,
Alice

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