Tu, io, noi. 🎈
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Ciao!
Sono Alice e questa è Ojalá, la newsletter che parla di scrittura e rappresentazione inclusive, begli esempi di accessibilità sul web e storie variopinte.
Io sono una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo. Vivo a Barcellona dal 2012 e per questo la mia newsletter contiene giocoforza anche qualche incursione di vita catalana e tanta, tanta salsa brava.
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Il giorno in cui ho compiuto trent'anni, ad agosto 2012, una ex compagna del liceo mi ha detto: “Non sai quanto ti invidio, Alice. Vivi a Milano, hai un bel lavoro, una bella vita, un marito che ti ama: hai tutto, sei fortunata.”
Quella persona mi riteneva fortunata. Sicuramente lo ero.
Ma lei non sapeva che il mio matrimonio era già in crisi, che nel giro di un mese io e il mio ex marito ci saremmo separati, che non ne potevo più di lavorare a Milano e che a breve, senza pensarci due volte, avrei comprato un biglietto singolo e di sola andata per Barcellona.
Quante cose date per scontate dietro due semplici parole.
Quel “sei fortunata” nel giorno in cui compivo trent'anni e mi trovavo nel mezzo di una pesante crisi esistenziale aveva aggiunto altro carico al mio già logorato senso di colpa.
A volte pensiamo di dire una cosa giusta, inequivocabile, senza renderci conto che le nostre parole sono frutto di una visione parziale della realtà.
Ci penso spesso e ogni volta in cui sento livellare il vissuto delle persone a frasi standard, a cliché. Succede per esempio quando parliamo superficialmente dell’esperienza delle persone migranti, delle comunità marginalizzate, dell’esperienza di vita di persone con un’identità di genere o un corpo diversi dai nostri.
La radical copyeditor Alex Kapitan definisce "minimizzatore" questo tipo di linguaggio: qui trovi il pezzo originale.
Un piccolo estratto tradotto da me:
«Il linguaggio minimizzatore può creare confusione. A livello superficiale, sembra far uso di parole positive e solidali con la diversità umana; eppure, spesso, chi lo usa non ha fatto il lavoro necessario per mettere in discussione e smantellare i valori, gli standard e le norme che sostengono l’oppressione di determinati gruppi di persone.»
È il caso di chi afferma “io non vedo colori né razze“, negando così i problemi che vivono ogni giorno le persone razzializzate.
O dell’adagio All lives matter che abbiamo sentito, soprattutto negli ultimi due anni, urlato in contrapposizione al movimento Black Lives Matter.
Il linguaggio minimizzatore, pur partendo dalle migliori intenzioni, sostiene del tutto inconsciamente lo status quo. Dimostra che le intenzioni positive e un semplice cambio delle parole non sono sufficienti per lavorare attivamente contro l'oppressione; dobbiamo smascherare e cambiare anche ciò che sta dietro il nostro parlare.
Ecco quindi che cambiare le parole non è l’unico mezzo che abbiamo per smantellare l’oppressione delle persone discriminate. È necessario anche un lavoro di consapevolezza, pena lo svuotamento di significato della nostra comunicazione.
Quali sono i tuoi pronomi?
La settimana scorsa ho letto una notizia: LinkedIn sta per introdurre un campo opzionale nella parte superiore del profilo, accanto al nome, dove sarà possibile aggiungere i nostri pronomi.
Di questa nuova funzionalità parla Bruna Gil, responsabile delle partnership a LinkedIn. Secondo quanto Gil riporta nei commenti, presto il campo sarà personalizzabile e in futuro potrà contenere i pronomi in ogni lingua.
Ho iniziato a specificare i miei pronomi (she/her/lei) nelle bio dei miei profili social diverso tempo fa, e in primis su Twitter, dove si trova il grosso della comunità WordPress con cui lavoro.
Su LinkedIn li ho aggiunti così, come parte del campo "Cognome":
L'intestazione del mio profilo su LinkedIn
A cosa serve specificare i nostri pronomi nelle bio sui social e nelle firme digitali (io li ho aggiunti anche nella mia firma su Gmail)?
Sono una donna cis, ma questo non dovrebbe essere dato per scontato solo perché mi chiamo Alice.
(Se non c'eri quando ho parlato del significato di cis, ).
Molte persone non si riconoscono nel sistema binario uomo/donna e, di conseguenza, preferirebbero non usare i pronomi maschili o femminili per parlare di sé.
L'inglese facilita le cose con il cosiddetto singular they: il pronome plurale they (loro) viene usato anche come singolare non binario.
Lo puoi usare anche quando, semplicemente, non conosci la persona di cui stai parlando (a me capitava spesso quando lavoravo nel supporto internazionale e dovevo parlare al mio team di qualche cliente di cui sapevo solo il nome).
In italiano non abbiamo ancora una soluzione simile e per questo potresti incontrare sui social persone che, pur parlando italiano, affiancano al loro nome i pronomi they/them.
L'aggiunta dei pronomi è un passo in più verso una reale inclusione sul posto di lavoro e nella società in generale. Aiuta ad aprire la discussione sul tema anche in Italia.
Quali sono gli altri vantaggi?
1. Crea uno spazio più sicuro dove chiunque può portare il suo "intero sé" anche in ambito professionale ed essere rispettatə per questo.
2. Aiuta a non dare per scontato il genere di una persona, e quindi evita anche situazioni di misgendering, cioè appellare qualcuno con la desinenza o il pronome che non corrisponde alla sua identità di genere.
3. Rappresenta un gesto di sostegno verso le persone trans e non-binarie che fanno parte della nostra cerchia di conoscenze. È un po' un modo per ridurre parte del peso che grava su di loro nel dover spiegare continuamente la loro identità.
Il fatto che LinkedIn stia tenendo conto di tutto questo mi sembra una buona notizia, non credi?
Mini glossario della comunicazione inclusiva:
Deadname, empty name.
(Come si pronunciano?)
Per scrivere questa nuova voce del glossario della comunicazione inclusiva, ho chiesto supporto a una persona che stimo molto e che ho conosciuto su Instagram: Giulia Guida.
Classe 1989, persona non binaria, usa pronomi neutri e maschili.
Ha studiato arabo per cinque anni, ma a oggi ricorda solo come si dice "frullato alla banana". Dopo aver scritto una tesi sui droni, è precipitato nella voragine del data entry. Ha una dipendenza da podcast e newsletter al punto da invadere quelle altrui. 😅
Lo trovi su Instagram (@giu_stap_punto) e su Medium (giuliaguida.medium.com) dove scrive di identità di genere, body liberation e transfemminismo.
Lascio la tastiera a lui!
፨
Il dizionario di lingua inglese Merriam-Webster – che nel 2019 aveva scelto come parola dell’anno il pronome they/them, facendo riferimento al suo utilizzo al singolare per indicare una persona di genere non binario – alla voce deadname (letteralmente “nome morto”) riporta:
«Il nome assegnato alla nascita a una persona transgender e successivamente dismesso con l’avvio del processo di transizione di genere».
Un nome proprio non è soltanto una sequenza arbitraria di lettere, racchiude e riflette l’identità della persona che lo abita, assieme al corpo ne è la prima interfaccia con il mondo.
Quando il genitore o qualsiasi altra figura di cura attribuisce il nome a un nuovə natə, sancisce il primo atto del suo processo di costruzione identitaria, necessario a definire cos’è “io”, a descriverne il perimetro, tracciandone il punto di inizio e di fine, e a riposizionarlo di volta in volta nello spazio rispetto agli altri “io” con cui si trova a interagire: io sono innanzitutto il mio nome, il resto è altro e fuori da me.
Nominare è un atto di affettuosa coercizione: alla nascita nessunə si trova nella condizione di dover sceglier il proprio nome, ci viene affibbiato e ci si cresce dentro più o meno comodamente, finendo per sviluppare un buffo senso di appartenenza che quasi sconfina nella gelosia – vi ricordate lo stupore misto al disappunto quando da bambinə avete scoperto che non eravate glə unicə Marta e Marco nel mondo?
Che quella stringa di lettere gridata da un’altalena all’altra in un parco giochi poteva indicare qualcun altrə a parte voi?
Quando una persona trans* (e con trans* qui indichiamo tutte quelle soggettività la cui identità di genere differisce da quella assegnata alla nascita, che si riconoscano o meno all’interno del sistema binario maschile/femminile) intraprende un percorso di transizione sociale e/o medicalizzata, può sperimentare un senso di progressiva dis-identificazione rispetto al nome anagrafico.
In una lingua come quella italiana, dove la genderizzazione (ovvero la caratterizzazione di diverse parti del discorso, come gli aggettivi o i participi passati dei verbi, finalizzata a esplicitare il genere di appartenenza di qualcunə o qualcosa) complica l’adozione di un linguaggio il più possibile inclusivo in termini di genere, anche la maggior parte dei nomi propri non sono gender-neutral perché identificano in maniera per lo più esclusiva persone assegnate o maschi o femmine alla nascita in base all’osservazione dell’anatomia genitale.
Presentarsi nel mondo con un nome che per convenzione sociale viene associato a un’identità di genere non coincidente con la propria può esasperare un vissuto di incongruenza, soprattutto se non si può o si decide di non intraprendere una transizione medicalizzata che permette un graduale allineamento del corpo visibile con il corpo percepito.
Per questo una pratica comune nei percorsi di affermazione di genere è la scelta di un nome diverso da quello anagrafico, che viene per l’appunto archiviato come deadname.
L’auto-nominazione per una persona in transizione è un atto dal profondo valore simbolico perché sottende alla rivendicazione di una nuova identità sociale oltre che individuale: continuare a rifersirsi a una persona trans* con il nome anagrafico (deadnaming) e i pronomi relativi al genere assegnato alla nascita (misgendering), nonostante l’esplicita richiesta di fare diversamente, può causare delle severe ripercussioni sul benessere psico-fisico di chi subisce queste pratiche.
Se il nome è il nostro “io”, il misgendering e il deadnaming – soprattutto quando non sono frutto di distrazione, ma nascono da una volontà manifesta di discriminazione – negano alla persona trans* la legittimità di abitare lo spazio sociale per come si auto-percepisce e, di conseguenza, per come è.
Le negano il diritto di esistere.
Quando lo psicoterapeuta mi ha chiesto di osservare le sensazioni che mi suscitava essere chiamato con il nome anagrafico, ho concluso che per me “Giulia” non è tanto un nome morto, verso cui provo fastidio, ostilità o paura, quanto piuttosto un nome vuoto, un empty name.
Man mano che la mia identità di genere non binaria trans-masculine (al di fuori del sistema binario di genere maschile/femminile, ma con una crescente tendenza verso il polo maschile, almeno rispetto al mio corpo percepito) va delineandosi, “Giulia” si sta progressivamente svuotando della rete di significati che hanno concorso a scriverne la storia.
Mi rappresenta ogni giorno sempre un po’ meno.
Il mio nome d’elezione invece, che per ora ho deciso di utilizzare soltanto in terapia e con il mio gruppo di affetti più cari, è uno spazio bianco ancora tutto da significare, eppure ha già un suo peso specifico. Ascoltarlo o leggerlo nel corso di una conversazione, anche se non ci ho ancora fatto l’abitudine e alle volte mi macchio di esilaranti crimini di auto-deadnaming, mi restituisce un centro, un senso di pienezza, uno stato di solidità.
E sopra ogni cosa leggerezza che, come scriveva Daniil Charms, non va mai confusa con il vuoto.
Tra la leggerezza e il vuoto c’è di mezzo un nome e quel nome adesso sono io.
A proposito di deadname, segnalo una lettura (in inglese) che può essere utile a chi si occupa di UX design o UX writing su come progettare esperienze digitali rispettose delle persone trans: The UX of deadnaming.
Un buon esempio di comunicazione inclusiva:
Clue è un'app per il monitoraggio del ciclo mestruale e dell'ovulazione.
L'azienda ha sede a Berlino ed è stata fondata nel 2013 da Ida Tin, Hans Raffauf, Moritz von Buttlar e Mike LaVigne.
Ida Tin è l'attuale CEO e anche la persona che ha coniato il termine "femtech" (da female + technology) per identificare la categoria di software, prodotti e servizi tecnologici che si concentrano sulla salute delle donne e delle persone con le mestruazioni.
Perché mi piace:
Uso Clue da diverso tempo e mi piace molto perché:
- organizza le informazioni in modo chiaro e accessibile;
- è facile da usare;
- è precisa;
- ha un'interfaccia pulita e senza fronzoli (no fiorellini, no rosa né altri richiami stereotipati al "mondo femminile");
- usa un linguaggio inclusivo in 15 lingue;
- il suo blog è ricco di contenuti preziosi, che parlano di mestruazioni e corpi senza ridurre tutto al binarismo di genere (la sezione Periods beyond gender ne è un bellissimo esempio).
Il linguaggio:
Clue cerca di parlare alle persone nel modo più neutro possibile.
Il processo di registrazione è semplice: le uniche informazioni di cui l'app ha bisogno per creare un account sono nome, data di nascita, indirizzo email e l'indicazione sull'uso o meno di un metodo anticoncezionale.
Il linguaggio è quasi del tutto non genderizzato.
Solo nella schermata iniziale si trova un "Benvenut@", dove la desinenza di genere è stata trasformata in @. Uno stratagemma che mi ha ricordato lo spagnolo, dove la chiocciola @ veniva spesso usata come desinenza neutra (ora stanno prendendo più piede la x o la e).
Quello che mi piace di più, in realtà, è la scelta del team di non dare mai per scontato che chi usa Clue sia una donna.
Sia sul sito web che sul blog si parla sempre di "people with cycle" o "people who menstruates", cioè persone con le mestruazioni.
Questo rende l'esperienza con l'app inclusiva anche per gli uomini trans, le persone genderqueer o non binarie che, pur avendo le mestruazioni, non si identificano come donne.
Ecco alcuni esempi tratti dal loro blog (disponibile solo in inglese, spagnolo e portoghese):
- Un articolo sull'esperienza di uomini trans, persone genderqueer e non binarie che usano metodi contraccettivi.
- Perché le mestruazioni non sono una "cosa da donna": parlare del ciclo superando gli stereotipi di genere.
- Consigli per le persone trans su come monitorare il ciclo mestruale.
Per questo lunedì ho finito. Se tutto va bene ci risentiamo tra due settimane.
Intanto, rispondi pure a questa email se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri (magari una parola per il mini glossario di comunicazione inclusiva?), o un saluto.
Ciao!
Alice