#52 Smontare le parole
I significati dietro le parole che campeggiano e si riproducono sui nostri schermi.
«Quando ho iniziato a leggere la mia copia di Scrivi e lascia vivere mi trovavo a Mykolaïv, nel sud dell’Ucraina, per raccontare la guerra iniziata il 24 febbraio 2022», scrive Veronica Fernandes nella prefazione di Scrivi e lascia vivere.
E continua:
Di sera riflettevo sulla vita fatta di sottrazione e terrore delle comunità incontrate nella zona del fronte, sulle crepe silenziose che il conflitto scava dentro ogni singola persona.
Una di queste crepe passa per le parole – dall’inizio della guerra moltissimi ucraini hanno deciso di non parlare più il russo, la loro prima o seconda lingua (dipende dalle aree), quella con cui fino a quel giorno hanno descritto il mondo e custodito ricordi. […]
Le nostre scelte linguistiche raccontano chi siamo in un momento preciso della nostra vita.
Mi è tornato in mente questo passaggio mentre cercavo le parole per imbastire il nuovo episodio di Ojalá. È un periodo in cui le parole non mi vengono facili. Anzi, faticano. Si affastellano dietro lo sterno, le sento pesare perché spesso preferiscono rimanere lì, al sicuro, nascoste ma comunque dense, ingombranti.
Mi affido allora alle parole che leggo e ascolto.
Dopo un’estate faticosa ho ritrovato la smania di leggere e ascoltare, di nutrirmi del pensiero altrui per diversificare il mio. Una diversificazione che si rende più che mai necessaria di fronte all’orrore a cui stiamo assistendo in Palestina.
Qualche giorno fa, grazie a Daniela Petrillo che me l’ha consigliata, ho visto i video di una collega copywriter inglese, Saffana Monajed, che ha un canale Tik Tok chiamato LearningCopywritingNow.
Il 16 ottobre Saffana ha iniziato a pubblicare video-pillole di copywriting diverse dal suo solito.
«La lezione di copywriting di oggi è un po’ diversa: analizziamo le parole che ci stanno permettendo di assistere a un genocidio accadere in tempo reale» — dice all’inizio del primo video.
Ho tradotto il suo discorso e te ne riporto qui alcuni passaggi, perché mi sembra una bella riflessione sul potere delle parole e sugli immaginari, e di conseguenza sulle opinioni, che contribuiscono a creare. I link che trovi nel testo li ho aggiunti io, così se ti va puoi approfondire:
La prima parola che esamineremo è evacuare.
La parola evacuare evoca un’azione fatta di fretta, ma pensiamo meglio al suo significato: “spostare un sacco di persone da un posto a un altro”.
Ora, come si fa a farlo con un milione di persone?
Perché se visualizziamo l'evacuazione di uno stadio pieno di persone, si tratta davvero di un sacco di gente.Ora moltiplichiamolo per un'intera città e togliamo di mezzo tutte le strade e le infrastrutture. Immaginiamo che a ogni singola persona in questo scenario sia stato detto di andarsene perché la sua casa sta per essere bombardata.
Quindi un’analogia migliore per questo scenario sarebbe: quale parola usereste per descrivere la situazione di una persona che entra in una scuola con una pistola e vi dice che avete pochi secondi per scappare?
Sarebbe un’evacuazione?È evacuare la parola che usereste se qualcuno vi stesse dicendo di lasciare un determinato posto in un lasso di tempo irrealistico, lungo una strada impossibile da percorrere, o la vostra vita finirà se non lo fate?
In questo caso vi stanno evacuando o vi stanno minacciando di morte?
La maggior parte delle persone concorderebbe sul fatto che si tratta più di una minaccia di morte che di un'evacuazione.Se si minacciano di morte 1,1 milioni di persone di una determinata etnia, si parla di genocidio.
La parola evacuare è in realtà un termine troppo neutro per la violenza attiva a cui stiamo assistendo. E una volta che si inizia a neutralizzare la violenza, le persone iniziano a intorpidirsi di fronte alla realtà di ciò che sta accadendo.
Vediamo ora l’espressione prigione a cielo aperto.
Nel momento in cui dico che una persona è in prigione, probabilmente vi chiedete "che cosa ha fatto di male?".
A cielo aperto può sembrare una condizione decente per qualcuno che ha fatto del male. Quando si parla di prigione, poi, di solito si fa riferimento anche a una sentenza o a una sorta di giudizio su cui è stato raggiunto un consenso.
Ma in questo caso, lo stato [di prigionia] è incondizionato. E non solo è incondizionato; esistono persone di sei anni che sono nate in una prigione istituita dieci anni prima della loro nascita, e a oggi hanno trascorso sei anni di vita in prigione. Eppure non hanno fatto nulla di male per finirci.
A rigor di logica, se non hai fatto nulla di male per finire in prigione e ci vivi contro la tua volontà, e in più i tuoi movimenti sono limitati, così come il cibo, l’acqua, le possibilità di ricevere un’istruzione, non sei in prigione, sei in ostaggio.Ma non si può usare la parola ostaggio, […] perché tenere persone in ostaggio dalla nascita fino alla morte, a tempo indeterminato, non suona bene.
[…] Quindi: non evacuazione, ma minaccia di morte.
Non prigione a cielo aperto, ma tenere in ostaggio.
C’è della violenza attiva, in corso, ecco cosa succede: stanno perpetuando una violenza attiva e poi dicono "no, non è vero".
Presentano queste nefandezze come conseguenze, ma non lo sono, sono azioni violente attive.
Quando guardiamo ai genocidi passati, raramente ci soffermiamo sulle sfumature dei titoli dei giornali, e questo è probabilmente ciò che accadrà anche nei decenni a venire. La gente guarderà i fatti e le cifre di questa situazione, che sono brutali, e si chiederà "come è possibile che ci fossero persone a favore di questo genocidio?".
[…] Col senno di poi, come è successo anche con la guerra in Iraq, molte persone si vergogneranno di esserci cascate.Ma il punto è che è complicato smascherare le parole di chi ha passato decenni a perfezionare il linguaggio della manipolazione emotiva.
Per cui, quando si tratta di violenza chiamiamola violenza.
Quando è violenza attiva chiamiamola violenza attiva.
Queste non sono conseguenze delle azioni di nessuno; quando si inizia a credere che ciò che sta accadendo sia una mera conseguenza delle azioni di qualcuno, si inizia a pensare che tutto avvenga in un campo di gioco neutrale. Non è così.
Altre cose che ho letto e visto
Centinaia di manifestanti di Jewish Voice for Peace hanno bloccato la Grand Central Station di New York in uno dei più grandi atti di disobbedienza civile degli ultimi 20 anni per chiedere il cessate il fuoco a Gaza:
La giornalista Randa Ghazy spiega su Rainews cosa significa nascere e crescere intrappolati nella Striscia di Gaza.
Western feminism and its blind spots in the Middle East su Al Jazeera: una critica di Maryam Aldossari al femminismo occidentale e al doppio standard che prevale quando si parla di violenza sulle donne palestine e israeliane.
How AI reduces the world to stereotypes, di Victoria Tark per Rest of the World. Un’analisi che mostra come i sistemi di intelligenza artificiale generativa tendono a basarsi su pregiudizi, stereotipi e riduzionismo anche quando si tratta di identità nazionali.
L’ultimo numero della newsletter di Slow News, “Che cosa sappiamo quando non sappiamo niente?”, parla anche di istantismo.
Gaza Mon Amour, un film di Tarzan e Arab Nasser ambientato a Gaza e ispirato a una storia vera. È la storia di Issa, pescatore sessantenne segretamente innamorato di Siham, sarta che lavora al mercato con la figlia divorziata Leila. Raccontano i fratelli Nasser:
Nel 2014 un pescatore trovò in mare una statua greca di Apollo. Hamas la confiscò immediatamente e iniziò a cercare un acquirente, sperando di ricavare abbastanza denaro per risolvere i problemi finanziari del Paese. Nessuno sa che fine abbia fatto la statua. Alcuni dicono che sia stata venduta e poi distrutta in un attacco aereo. È stato davvero triste rendersi conto che il nostro governo non sapeva cosa fare di questa statua, se non seppellirla in qualche cantina.
Allo stesso tempo la nostra immaginazione ha preso il volo...
Cosa c'è di più emozionante che immaginare il Dio dell'amore che fa la sua apparizione a Gaza, arrivando a scuotere la vita di un vecchio pescatore solitario? Con questo film, come con i nostri lavori precedenti, cerchiamo di dare uno sguardo alla vita quotidiana di questo piccolo pezzo di terra chiamato Gaza. È un luogo strano, dove le situazioni più semplici possono rivelarsi immensamente complicate. Mentre è bloccato in questa cupa situazione, il nostro protagonista vede la vita in modo diverso.
Per questa settimana chiudo qui.
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Alice
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Che meraviglia questa riflessione. Pensavo una cosa simile in questi giorni leggendo "e non chiamiamola guerra, questo è un genocidio". Il che mi ha lasciata un attimo perplessa, così ci ho ragionato su. Come se ah ok fosse guerra ci può stare, è che è genocidio. Ci sono chiaramente dei livelli di oscenità diversi, ma tramite questa frase mi son messa lì a sviscerare le implicazioni delle parole usate, come se ci fossimo abituati al gradino prima, quello della guerra, e l'inaccettabile a livello ontologico sia solo lo step successivo. Ho lo stesso cortocircuito con "crimini di guerra" riguardo a certe armi o certe modalità. "Crimini DI guerra" che in fondo sottolinea che all'interno della guerra ci sono DEI crimini, ovvero oscenità peggiori, e le altre non sono legalmente crimini. Non so dove porta esattamente sta riflessione, ma ho il sentore che si leghi a quella che hai condiviso. Grazie <3