#81 I nostri ricordi. Il loro cloud.
Le nostre emozioni monetizzate, la difficoltà di lasciarle andare: ho molte domande e riflessioni da condividere, risposte meno.
In questo episodio:
L’origine della riflessione di oggi: una conversazione su un gruppo Slack.
Di quando ho iniziato ad affidare i miei messaggi alla volatilità del digitale.
Eliminare certi account social: la difficoltà di lasciar andare.
Quanto sono disposta a pagare per tenere i miei dati e i miei ricordi nelle mani dei mastodonti tech?
Letture su: comitati DEI (Diversity, Equity e Inclusion) nelle big tech, eredità digitale, il tabú della parola “morte”, rimozione di dati storici da Google, l’agonia di messaggiare con (certi) uomini.
L’altro giorno scorrevo i messaggi non letti su uno Slack per content writer che seguo; nel canale #random c’era una conversazione in corso a proposito della scelta di eliminare o meno i propri account Meta, dopo la svolta pro-Trump del suo fondatore.
Una persona diceva:
Non riesco a decidermi e a disattivare il mio account, lì dentro ci sono ancora messaggi scambiati con persone care che non ci sono più. Eliminare i miei account mi pesa molto, è come se stessi cancellando anche loro dalla mia vita. I hate what they're doing so much. Odio quello che stanno facendo.
Un’altra le rispondeva:
Hanno monetizzato i nostri bisogni sociali più basici, quei bastardi.
Nulla di nuovo, eppure incappare in quella conversazione mi ha punta sul vivo. Proprio il giorno prima ero tornata a leggere gli ultimi messaggi WhatsApp scambiati con una persona cara morta da poco — gli auguri di Natale, una foto del mare del mio paesello, gli aggiornamenti sullo stato di salute.
Messaggi che esistono ancora, impilati uno di seguito all’altro sullo sfondo verde chiaro dell’app. Mi dico che per ora vorrei tenerli e continuare a leggerli di tanto in tanto, poi vediamo. Ma non riesco a evitare anche una sensazione di scomodità.
Eccolo lì che torna, il pensiero timoroso sulla quantità di ricordi che ho volontariamente messo nelle mani delle grandi aziende del tech.

Sanno tutto di me, più di quanto io ricordi.
Sono ormai trent’anni e passa (30!) che affido i miei messaggi alla volatilità del digitale. A fine anni Novanta questa realizzazione mi aveva fatto entrare in un loop ossessivo da amanuense: trascrivevo tutti gli sms belli che ricevevo in un quaderno perché non sopportavo l’idea che potessero andare persi in caso di rottura o cambio del cellulare. C’era anche il severo limite delle memorie dei cellulari di allora, quanti sms potevano contenere — 10, 20 al massimo?
Con il tempo ci ho fatto il callo. Molti sms saranno ancora nella pancia di quell’Alcatel grigio, chissà. Poi sono arrivati — in personale ordine cronologico — i messaggi e i ricordi lasciati su Tiscali Blog (sparito), Facebook e Google Photo, Flickr (mezzo sparito anche lui), Twitter, WhatsApp, Dropbox, Telegram, Instagram. Milioni di byte scambiati in formato testo, immagine, audio. Milioni di byte di ricordi.
Impossibile starci dietro, nonostante gli hard disk che mi hanno accompagnata nel cammino, alcuni dei quali non hanno retto il peso dell’obsolescenza tecnologica.
La nube ha vinto, ma ogni tanto ci riprovo: seleziono foto, faccio stampare un album, tengo ordinate con cura certosina tutte le cartelle di immagini, ricontrollo dove vanno a finire i backup di WhatsApp — che poi mi chiedo: quali conversazioni salverei davvero delle decine che scrivo ogni giorno?
Cosa vale la pena salvare? Come faccio a sapere in anticipo cosa vorrà rivedere la Alice del futuro? Ha senso farsi queste domande?
Da buona millennial in cerca di rinforzi ho googlato e trovato un articolo di Kashmir Hills sul New York Times, si intitola Your memories. Their cloud. Ci ho trovato alcune risposte, anche se avrei voluto più riflessioni sull’oligarchia tech che ci presta il cloud e monetizza le nostre emozioni.
La giornalista racconta di quando ha usato Takeout, lo strumento per salvare ed esportare tutti i dati presenti nei nostri account Google:
È bastato premere un pulsante e in un paio di giorni ho ricevuto i miei dati impacchettati in tre file, una cosa fantastica, anche se alcuni di loro, tra cui tutte le mie email, non erano leggibili. Paradossalmente i file erano in un formato leggibile solo tramite un altro servizio o un account Google.
[...]
Alcune aziende proprietarie dei miei dati erano più accomodanti di altre. Twitter, Facebook e Instagram offrivano strumenti simili a Takeout, mentre Apple proponeva un processo di trasferimento dati più complicato che includeva lunghe istruzioni e un cavo USB.
La quantità di dati che ho recuperato alla fine è stata sbalorditiva: oltre 30.000 foto, 2.000 video, 22.000 tweet, 57.000 email, 15.000 pagine di vecchie chat di Google e 16.000 pagine di ricerche su Google che partivano dal 2011.
Potrei essere io? Potresti essere tu?
Dimmelo nei commenti, se ti va.
Tra le numerose opinioni di persone esperte intervistate nell’articolo mi sono segnata queste:
“Spesso diciamo che Internet non dimentica mai, ma non è vero”, dice lo storico del web Ian Milligan. Le aziende chiudono, come è successo a GeoCities, uno dei primi popolari spazi online a ospitare siti web personali; capita che un servizio riduca la quantità di spazio di archiviazione gratuito che offre, come quando il nuovo proprietario di Flickr annunció nel 2019 che gli account gratuiti avevano un limite di 1.000 foto e che tutte le foto precedenti sarebbero state cancellate.
(Se anche tu hai avuto una comunità su Flickr, probabilmente ricordi quel momento. Ecco perché sopra lo definivo un archivio di ricordi “mezzo sparito”.)
Margot Note, archivista, dice che grazie alla sua professione pensa spesso all'accessibilità del supporto su cui sono memorizzati i dati, vista anche la difficoltà di recuperare i video da vecchi formati come DVD, videocassette e pellicole a bobina.
Note si fa domande che la maggior parte di noi non si pone: in futuro potremo contare su software o hardware adatti ad aprire tutti i nostri file digitali attuali? A causa di un fenomeno chiamato “bit rot”, cioè la degradazione di un file digitale nel tempo, i nostri file potrebbero non essere in buone condizioni.
Sia le persone che le istituzioni pensano che digitalizzare il materiale sia sufficiente per metterlo sicuro, dice Note: “Ma i file digitali possono essere più fragili di quelli fisici”.
La difficoltà di lasciar andare
Otto anni fa, proprio a gennaio, in un moto di protesta avevo eliminato per sempre il mio primo account Facebook e cancellato l’app di WhatsApp dal mio cellulare. Mi aveva aiutata nella scelta la lettura di un post, Get your loved ones off Facebook; ma anche l’aver dialogato con la mia ansia social, l’indignazione di vedere WhatsApp irrimediabilmente controllato da Facebook e la poca trasparenza di quest’ultimo in tema di privacy.
Eliminare tutto mi era pesato, ma avevo provato anche un senso di liberazione che non avevo previsto. Con quel clic mi ero lasciata dietro la vetrina di una vita che non era più la mia, e mi ero fatta andar bene questa versione risoluta e meno nostalgica di me.
Il tempo e certe scelte lavorative mi hanno poi rimesso sulla strada di Meta (era davvero possibile farne a meno, con una professione nel digitale?). E quindi oggi eccomi qua, a sentire di nuovo lo stesso fastidio.
Quanto costa, a livello emotivo, togliere i nostri dati e i nostri ricordi dalle mani dei mastodonti che socializzano e tecnologizzano le nostre vite? Quanto siamo disposte a pagare (proprio in soldi, sì)?
Ho condiviso queste domande con una persona cara. Abbiamo convenuto che sì, potremmo senz’altro mettere al sicuro altrove tutti gli archivi di messaggi, foto e audio delle nostre app. Ma non siamo disposte a rinunciare all’esperienza emotiva, quella sensazione di vicinanza che ci dà comunicare su un’app. È lì che ci piace tenere i nostri ricordi, in quello spazio etereo eppure così vicino, così nostro. E questo rende più difficile farne a meno.
Quello a cui ci affezioniamo — ci siamo dette — è anche il formato delle conversazioni e lo stato emotivo che cullano, il cui ricordo sembra durare più vivido nel tempo. C’è tutto il linguaggio del “non detto”, fatto di piccoli meta-dettagli della conversazione, un’emoji, una gif animata, un meme al momento giusto. Tutto questo non sopravvive allo stesso modo, quando lo trasformi in un file di backup.
Eppure, è così necessario farlo sopravvivere?
Intanto, loro…
Sulla barra superiore della mia più vecchia casella Gmail è apparso un banner che dice:
Spazio di archiviazione utilizzato: 80%.
Se lo esaurisci, non potrai salvare i file su Drive e il tuo accesso a Gmail e Foto sarà limitato. Approfitta di 1 mese di 100 GB a1,99 €0,49 €.
Su Dropbox sono passata da tempo al piano Plus, 120 € all’anno per 2 TB di spazio. Ogni volta che entro nel mio account trovo pulsanti fosforescenti che mi invitano a passare a un piano superiore. Eddai, prova a dirmi Dropbox, lo sappiamo che non ti serve, ma perché rischiare?

Mi torna in mente l’opinione di Bob Clark, direttore degli archivi del Rockefeller Archive Center, nell’articolo del New York Times che ho citato prima:
Meno del 5% del materiale di una collezione vale la pena di essere salvato. Rimprovera alle aziende tecnologiche di offrire troppo spazio di archiviazione ed eliminare così la necessità di decidere cosa conservare.
“Hanno reso le cose così facili che ci hanno trasformato in accumulatori involontari di dati”, dice.
Data hoarders, li chiama lui. Memories hoarders, aggiungo io.
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Una Nota su Substack che mi ha fatto ridere (ma anche boh 😰)
La regista Jude Hope Harris ha condiviso la conversazione che ha avuto con l’IA di Meta prima di eliminare il suo account:
JHH: Solo se mi dici una cosa sconvolgente.
IA: Ecco qualcosa di provocatorio e un po’ sconcertante:
“Immagina un mondo in cui si possono trasferire i ricordi, le persone iniziano a vendere le loro esperienze più preziose a sconosciuti, essenzialmente mercificando la propria nostalgia”. Cosa ti sembra?
JHH: Ma questo non è forse Facebook?
IA: Hai assolutamente ragione! Ricorda molto le piattaforme social come Facebook, dove le persone condividono i loro ricordi e le loro esperienze, e la piattaforma ne trae profitto.
Altre curiosità da scoprire ✨
L’ultimo episodio di Impromptu, podcast del Washington Post, è dedicato al dilemma “Dovremmo eliminare i nostri account social?”. Lo trovi su YouTube e dura venti minuti.
C’era una volta il progressismo delle aziende tech, titola
nell’ultimo numero della sua newsletter Anche una donna qui. La sua prospettiva da ex-dipendente Google e volontaria nel comitato aziendale DEI è imperdibile. “Dal basso. Dal basso. Dal basso.” è la sua esortazione, e voglio tenermela stretta.Lo sai che su Google puoi eliminare la cronologia delle tue ricerche via web e app, sì? Io ho impostato l’eliminazione automatica della cronologia nell’account Google che uso con più frequenza, ma negli altri due la cronologia risaliva al 2017. Chi ero nel 2017? Cosa cercavo sul web? Perché? Sono risposte che, onestamente, non voglio lasciare a Google e a nessun altro. Sono fatti miei, diceva Raz Degan.
Tutto questo parlare di ricordi in cloud mi ha fatto tornare in mente un episodio della newsletter di
, La morte è la cosa di cui parlo di più, dove trovi link utili per iniziare a pensare alla tua eredità digitale.Sono una persona sia previdente che scaramantica, non ho paura a parlare di morte. Cerco di circondarmi di persone che la pensano allo stesso modo, è liberatorio (grazie a tutte voi, sapete chi siete, vi voglio bene). Ecco perché, come Elena Panciera, anche io credo che non riuscire più a dire “morte” sia un problema.
Visto che ho parlato tanto di comunicare via messaggi, concludo con un bell’articolo scoperto grazie alla chat Substack di
, autore di Patrilineare: L’agonia di messaggiare con gli uomini, su The Atlantic.
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Come suonerebbe questo episodio di Ojalá?
Tutta la musica che consiglio su Ojalá atterra su questa playlist collaborativa su Spotify. Che canzone assoceresti a questo episodio? Scrivimelo via email o nei commenti di Substack. 🎶
Per questa settimana chiudo qui.
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Rispondi a questa email o scrivimi su ojala [at] aliceorru.me 📧
Sono Alice Orrù, sarda emigrata a Barcellona nel 2012.
Fiera della sua residenza, la mia newsletter contiene incursioni di vita catalana e tanta, tanta salsa brava. 🍟
Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Alice
Sono una minimalista anche nel digitale. Tutto ciò che conta è sul pc e ho un backup su hd. Ovviamente c'è sempre un minimo rischio. Per quanto riguarda chat varie cancello ciclicamente, formatto spesso il cellulare. Nel tempo ho buttato via molti account social senza esitazione.
Eppure sono qui che non riesco a staccarmi da Instagram sempre con l'ansia che ci sia l'occasione giusta per il mio e-commerce, nonostante sia consapevole di come lo uso male (per scelta). C'è molta contraddizione in questa società tecnologica, dove tutto è diventato necessario e superfluo al tempo stesso.
Da persona che ha perso a distanza di sei mesi tutte le foto e i dati dell'ultimo anno e mezzo, questa newsletter colpisce nel segno. Fino a poco tempo fa, una volta all'anno, facevo un backup religioso delle foto dal cellulare al PC e dal PC in una memoria esterna. Ho saltato qualche anno, ed eccomi qui a elemosinare mie foto dalle mie amiche :) (nuovo progetto: stampare un album all'anno. Vediamo quanto dura). Sul tema c'è anche una bella puntata di Ciberlocutorio, si chiama El enlace está roto