#36 Dalle 9 alle 5
Di film di quarant'anni fa ed espressioni spagnole che mi piacerebbe usare anche in italiano.
Questo è un omaggio a tutte coloro che si sono sentite sovraccaricate per un lavoro sottopagato e spinte al limite da un capo ingrato.
Arrivano alle 9:00 perché sanno che, se non sono puntuali, potrebbero essere licenziate. Prima di iniziare a lavorare portano al capo il suo caffè americano. Si ricordano di ogni appuntamento per assicurarsi che lui non arrivi in ritardo e che tutto sia ben organizzato. Prenotano i tavoli per il brunch o per il pranzo con tre Martini, mentre loro cenano con hamburger e patatine fritte. Ascoltano tutti i suoi problemi, fanno il possibile per accontentarlo e, anche se sono loro a tenere in piedi lo spettacolo, è lui che viene pagato per le loro idee.
E così, finché lui rimane in vita, dalle 9:00 alle 5:00 stringono i denti.
Ma cosa succede quando arriva finalmente l’opportunità di vendicarsi di quell'uomo?
Hai appena letto la trascrizione (tradotta da me) del trailer di 9 to 5, commedia del 1980 diretta da Colin Higgins e scritta insieme a Patricia Resnick.
Lo puoi vedere e ascoltare qui:
Ho recuperato questo film in un moto di nostalgia dopo la fine di Grace and Frankie, commedia dei giorni nostri interpretata dalle stesse attrici, Jane Fonda e Lily Tomlin. (Avevo parlato di questa serie in uno dei primi episodi di Ojalá dedicati alla discriminazione generazionale, o ageismo.)
In 9 to 5, Fonda e Tomlin sono protagoniste insieme a Dolly Parton di una storia di solidarietà ed “empowerment femminile”, come forse la definiremmo oggi.
Le tre donne lavorano come impiegate nello stesso ufficio: stufe delle angherie subite dal loro capo misogino e sessista, lo rapiscono e ne prendono segretamente il posto. Falsificandone le firme, rivoluzionano la vita del loro ufficio con politiche progressiste piuttosto all’avanguardia per i tempi.
Introducono orari di lavoro flessibili, permessi retribuiti, nido aziendale, supporto psicologico interno.
L'azienda viene lodata dal CEO per aver aumentato i profitti con margini enormi in sole sei settimane, il tempo che le tre donne hanno avuto a disposizione per prendere il controllo della situazione e lanciare politiche di lavoro eque.
Tra queste c’è anche la parità di retribuzione per chiunque, ma questa è l’unica novità che, alla fine del film, il CEO dichiara di non poter accettare:
La questione della parità di retribuzione… tagliala. È un buon incentivo, ma con le politiche di welfare direi che siamo a posto.
D’altronde era solo il 1980… — oh wait, mi stai dicendo che abbiamo ancora difficoltà a regolare il tema?
In giro sul web potresti trovare 9 to 5 catalogato come commedia femminista. Io non lo eleverei a tanto, anzi, ha un sacco di problemi, partendo proprio dalla rappresentazione stereotipata delle protagoniste: Judy (Jane Fonda) è l’impiegata svampita e in grossa difficoltà con la fotocopiatrice, Doralee (Dolly Parton) è la segretaria procace e sessualizzata da inquadrature tipiche di una qualunque commedia sexy all’italiana. In più, la narrazione dell’emancipazione delle tre donne e l’applicazione delle loro idee aziendali è molto in linea con un certo femminismo bianco.
È però un film che, già 40 anni fa — q u a r a n t a —, metteva in luce con leggerezza e accessibilità una realtà che ancora oggi caratterizza molti posti di lavoro, vessati da strutture di potere patriarcali, misogine, controllatrici e autoritarie.
In qualche modo ci prospetta una soluzione apparentemente ovvia, di cui forse, dico forse, stiamo finalmente percependo l’importanza sostanziale: per migliorare la vita delle persone sul posto di lavoro, e di conseguenza i risultati aziendali, sono necessarie politiche di supporto che le facciano sentire ascoltate e tutelate.
Un salto in Spagna
Gli echi della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne sono ancora nell’aria: un giorno questo dolore ci sarà utile?, si chiede Flavia Brevi nella sua ultima e sempre precisa newsletter. È una domanda che condividiamo in tante, e purtroppo non solo il 25 novembre.
Mi voglio concentrare sugli esempi di comunicazione virtuosi, e allora ti mostro la campagna spagnola di sensibilizzazione promossa dalla delegazione del Governo contro la violenza di genere e dal Ministerio de Igualdad:
Il motto è ¿Entonces quién? (“E allora chi è stato?).
«Se non sono stato io e non sei stato tu, allora chi è stato?
Se non sarai tu ad agire per fermare la violenza machista, chi lo farà?»
Il focus è tutto sulla responsabilità maschile. È una campagna che parla agli uomini, sia come agenti della violenza che come soggetti imprescindibili per mettere fine alla violenza machista.
Le immagini e le frasi del video fanno riferimento a episodi reali che negli ultimi anni hanno fatto discutere l'opinione pubblica spagnola. C'è il gamer ElXocas che loda gli amici che ci provano con donne ubriache. C'è l'intervista sessista del presentatore Pablo Motos alle attrici della serie tv "Las chicas del cable". Ci sono le finestre e le sagome degli studenti del collegio universitario maschile di Madrid che a ottobre hanno inscenato violenti cori machisti contro le studentesse di un istituto femminile.
Una campagna che è stata molto lodata ma, come era previsto, anche piuttosto osteggiata, soprattutto dai personaggi che vi si sono riconosciuti (personaggi televisivi che, nonostante ora si schermiscano, collezionano da anni interventi sessisti e di cattivo gusto nei confronti delle loro ospiti).
Mini glossario della comunicazione inclusiva
Violenza machista
È una delle espressioni che, in Spagna e in alcuni Paesi latinoamericani come Messico e Colombia, si usa da circa un decennio per definire il problema sistemico della violenza contro le donne.
La Real Academia Española propone due sfumature di significato per la parola machismo: è sia l’atteggiamento di prepotenza degli uomini nei confronti delle donne che la forma di sessismo caratterizzata dal dominio maschile.
L’espressione violencia machista colloca il problema sulle spalle della parte agente, gli uomini. Io la trovo forte ed efficace: in sole due parole riesce a tratteggiare i contorni precisi e crudeli di un fenomeno pervasivo, che si esplicita su più livelli di gravità e che le statistiche e il vissuto personale di ognuna di noi ci dicono essere ancora parte integrante del nostro quotidiano.
In Spagna l’espressione violencia machista inizia a fare timido capolino nella prima parte degli anni 2000. Lo conferma anche Google Trends:
Non è però l’unico modo in cui in spagnolo ci si riferisce alla violenza contro le donne. A seconda del periodo, del contesto o dell’orientamento politico di chi ne parla, possiamo rintracciare diverse espressioni per descrivere il problema.
Il più frequente sulla stampa rimane violencia de género (violenza di genere); ci sono poi violencia doméstica (violenza domestica), violencia sexista (violenza sessista), terrorismo patriarcal (terrorismo patriarcale).
Perché dare tanta importanza alla definizione di un fenomeno?
Violenza di genere, violenza domestica, violenza contro le donne… non sono tutte la stessa cosa?
Nel 2013, il sociologo Manuel Peris Vidal risponde a questa obiezione con un paper molto interessante sull’importanza della scelta terminologica:
In alcuni settori si è tentato di depoliticizzare la violenza contro le donne approfittando della confusione generata dalla coesistenza di termini con significati diversi e dall'uso di espressioni su cui c'è consenso ma che finiscono per nascondere il vero carattere strutturale del problema.
Usare un ventaglio di termini diversi, secondo Peris Vidal e molte delle fonti citate nel paper, confonde invece che chiarire.
La conseguenza è che molte delle notizie sulla violenza di genere sono trattate come semplici eventi violenti senza alcuna relazione tra loro né un inquadramento nella stessa cornice sistemica.
Violenza di genere, per esempio, è un concetto che può rendere invisibile il riferimento allo squilibrio di potere tra i generi e al patriarcato come quadro interpretativo della violenza contro le donne.
Anche all’espressione violenza domestica mancherebbe forza argomentativa, perché descrive azioni violente di una o più persone della famiglia nei confronti di un’altra. In senso più stretto, specifica Peris Vidal, se la vittima è la donna con cui l'aggressore ha avuto o ha una relazione, la violenza domestica è una delle manifestazioni di violenza contro le donne.
Parlare di violenza machista, invece, ci permette di andare subito al punto:
L'aggettivo machista ha maggiore forza argomentativa rispetto agli altri perché allude sia alla causa che all'agente della violenza: "violenza causata dal machismo" e "violenza del macho" (Moreno, 2010: 906). Ha anche una connotazione peggiorativa: il suffisso -ista ("essere sostenitore di...", "essere a favore di...") può alludere al movimento ideologico, sociale o religioso derivato dal sostantivo (macho), e per questo potrebbe essere inteso come "violenza tipica del machismo". Per tutte queste ragioni, diventando un termine che si riferisce a valori e giudizi di valore, la forza argomentativa di questa espressione è maggiore.
Cosa ne pensi?
Un giro di letture e ascolti
1.
Avere cura di come vengono inserite nazionalità o origine di una persona nel testo non significa inquinare la veridicità di un fatto di cronaca realmente accaduto e che ha visto coinvolte persone di origine straniera. Piuttosto, significa evitare che tratti come nazionalità, origine o colore della pelle di una persona diventino parte integrante di una colpevolizzazione, in particolare quando si parla di un reato commesso.
Come cambiare paradigma? Si chiede Oiza Q. Obasuyi su Valigia Blu: segnati tutti i progetti che cita nell’articolo, quelli in cui le persone razzializzate sono protagoniste e si riappropriano della narrazione che viene costantemente fatta su di loro.
2.
Il lento affondamento di Twitter è giorno dopo giorno più preoccupante. Sì, preoccupante: se questo aggettivo ti sembra esagerato per definire le sorti di un social network, forse non sai che Twitter è (era?) una tra le piattaforme social più accessibili in circolazione. Come racconta Luoise Vallée su Slate, per anni, e con un picco nel 2020, Twitter è stato letteralmente un salvavita per migliaia di persone marginalizzate o con disabilità che lì hanno trovato modo di fare comunità e amplificare le loro voci. Nel suo blog Crutches and Spice, Imani Barbarin fa esempi molto pratici di come questo sia stato possibile.
3.
Lingua e cultura coincidono? In che modo la lingua che parliamo influenza il modo in cui pensiamo? E ancora: che rapporto c'è tra linguaggio e corporeità?
Cristina Cassese, antropologa culturale e podcaster, risponde a questi annosi quesiti con una puntata ricchissima del suo podcast premium Nomadismo Professionale: Nominare i corpi, da Franz Boas a Francesco Remotti.
In questo episodio Cristina ripercorre alcuni capisaldi dell’antropologia del linguaggio per esplorare le dinamiche sociali e simboliche che le parole veicolano. 💙
Se questi temi intrigano anche te, puoi seguire il suo lavoro sul sito di Nomadismo Professionale o tramite la sua newsletter gratuita Nomadica.
Per questo lunedì ho finito. Se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza problemi.
Ti basta rispondere a questa email.
A presto,
Alice
Che bello e com'è necessario questo mini glossario sulla comunicazione inclusiva.
E grazie per il consiglio del podcast Nomadismo Professionale: non lo conoscevo proprio. Ho iniziato l'ascolto dalla puntata sull'antropologia delle fiabe: wow 🤩.
Ora ho voglia di vedere quel film.