#31 Ma tu viaggi o fai turismo?
Riformulare il nostro modo di viaggiare e di parlare di viaggi.
Durante una delle mie ultime pulizie di stagione su Instagram, ho rimosso dalla lista delle persone seguite un buon numero di travel blogger.
Ho seguito un principio molto basico ed eliminato tutti gli account che facevano uso di:
frasi sulla falsariga di “non hanno nulla eppure sorridono sempre”;
foto di bambini — quasi sempre non bianchi, vedi le coincidenze — con il volto ben in vista, magari scattate per strada o pubblicate senza evidente consenso di una persona adulta;
racconti di viaggio scritti come un bel collage di nozionismo wikipediano e superficialità eurocentrica.
Ero tentata di applicare il filtro anche a chi sostiene di “essere unə verə viaggiatorə, non unə turista”, ma lì la pulizia si sarebbe trasformata in un eccidio.
Anche perché, ti dico la verità, io per prima ho rifiutato per anni l’etichetta di turista. Viaggiavo con lo zaino in spalla. Evitavo gli hotel e i resort. Cercavo l’esperienza autentica, la cucina locale, la comunicazione con le persone del posto.
Anche se faccio ancora (quasi) tutto questo, ho smesso di definire il mio modo di viaggiare come peculiare di una vera viaggiatrice.
Ogni volta che mi muovo dal posto in cui risiedo o in cui sono nata (e pure qui dovrei aprire un capitolo enorme sul fenomeno migratorio e sul non sentirmi più parte della Sardegna né ancora della Catalogna), sono e rimango una turista.
Certo, sono anche una a cui piace viaggiare. Ma nulla mi toglierà quella patina di estraneità che io per prima vorrei nascondere dietro l’illusione dell’autenticità, dell’esperienza local, per dirla alla Airbnb.
Qui in Spagna c’è un termine per identificare chi arriva da fuori e si muove in città o località turistiche con quella malcelata estraneità addosso: guiri, una parola con una storia interessante.
Ecco, in ogni mio viaggio sarò sempre e comunque una guiri.
Chi è turista e chi mente
Turismo deriva dal francese tourisme, tour, cioè «giro, viaggio».
Se fino a metà Ottocento viaggiare per “vedere il mondo” era parte della formazione dei giovani rampolli di nobile famiglia, la diffusione dei mezzi di trasporto e, più avanti, l’introduzione del riposo feriale retribuito, permette a molte più persone di spostarsi per piacere.
Questo turismo borghese, collettivo, un po’ volgarotto, poco ispirazionale — diremmo oggi — non era visto di buon occhio dalla nobiltà.
È forse questa visione classista che ha associato il termine turismo a un’attività meno elevata del viaggio formativo in senso aristocratico?
«Questo posto è pieno di turisti!», quante volte l’ho detto?
E quante volte io stessa, pur essendo parte della massa, mi sono sentita defraudata della mia esperienza esclusiva, del viaggio avventura che avevo programmato con tanta minuzia?
I numeri, intanto, ci dicono che viaggiare per turismo è ancora un’attività riservata a una piccola percentuale di persone nel mondo. Quindi sì, è un fenomeno classista nel senso moderno del termine.
Nel saggio Manuel de l’antitourisme (ed. Ecosociété, 2017), Rodolphe Christin riporta che nel 2006 le cinque nazionalità che più spendevano per turismo erano tedeschi, statunitensi, inglesi, francesi e giapponesi.
Ti riporto alcuni passaggi che trovo significativi e che ho tradotto dall’edizione spagnola (Fuera de Ruta, 2018):
Solo una minima percentuale di persone nel mondo ha le risorse per fare turismo. […] Il turista è un distruttore marginale. Lungi dall'essere così diffuso, il turismo sembra essere una pratica di chi ha risorse economiche sufficienti per godersi il mondo senza ostacoli.
È un lusso per una minoranza il cui impatto si ripercuote sulla maggioranza, perché questa minoranza cerca di andare ovunque, e ovunque si cerca di attrarre il suo potere d'acquisto.
[...] Il turismo è ancora un lusso tipicamente occidentale. Per essere più precisi, diciamo che il turismo è un'attività occidentalizzata [...], il lusso di una minoranza dominante, spesso considerato come un diritto, un vantaggio da acquisire che diventa dovere di vacanza per chi vuole vivere secondo la norma.
— pag. 18
Non paghi del nostro privilegio, cerchiamo di calcare con ancora più forza la distinzione tra il vero viaggio e il mero turismo.
Sempre Christin, a pagina 29:
Il turismo è un fenomeno così generalizzato e i nostri viaggi aspirano a essere così eccezionali e meravigliosi, che questo desiderio di viaggiare si scontra con la realtà turistica, quella che banalizza la peregrinazione, la priva del suo mistero, della sua natura avventurosa, della sua opacità.
Il viaggiatore cerca la differenza, il luogo “autentico”, “incontaminato” dal passaggio dei suoi simili, come sembra indicare anche la sua preferenza per luoghi sempre più lontani… E invece i suoi simili stanno in ogni dove, riflettono la sua immagine pure dall’altra parte del mondo. È proprio il colmo!
È possibile dimenticare i nostri punti di riferimento culturali, superare il nostro senso di familiarità, trasformarci in altro quando abbiamo costantemente sotto gli occhi un riflesso della nostra realtà?
Il turista, quell’altro io che il viaggiatore vorrebbe dimenticare per un momento, quel turista che gli sta di fronte, ovunque vada, diventa la rovina del suo viaggio, l’annientamento della sua scoperta. In questo faccia a faccia con il suo alter ego invadente e rinnegato, il viaggiatore trova tracce di sé che contraddicono la realtà che reclama. È come se il turista sfregiasse l’esotico dei luoghi che è venuto a conoscere da così lontano.
Per questo, qualsiasi stratagemma è benvenuto pur di allontanare questo antieroe dal nostro universo soggettivo: lo evitiamo visitando posti che il turista non ha ancora invaso. Lo disprezziamo, fingiamo di non averci nulla in comune. […] Cerchiamo di distinguerci in ogni modo, pianifichiamo itinerari insoliti, prendiamo mezzi di trasporto poco comuni, preferiamo assumerci più rischi, pubblichiamo il nostro racconto e, a quel punto, perché non assegnarci anche l’etichetta di «nuovi avventurieri» o «scrittori-viaggiatori»?
E poi (pag. 34):
Definire il turismo non è un compito facile. Se teniamo in conto la diffusione del fenomeno, sarebbe meglio parlare di «turismi», al plurale.
Nel 1979, l’Organizzazione Mondiale del Turismo lo definiva come «un insieme di spostamenti temporanei e volontari legati al cambio dei mezzi e del ritmo di vita, e che dovrebbero essere vincolati al contatto personale con l'ambiente visitato, sia esso naturale, culturale o sociale».
Mi soffermo in particolare su quest’ultima frase perché è un segno di quanto i tempi siano cambiati: già non si parla più di intrattenimento, ma si preferisce il concetto di scoperta personale.
E non è un caso che esistano diverse pubblicazioni che associano certe modalità di turismo a nuove forme di colonialismo.
Come evitarlo? Per esempio, tenendo gli occhi aperti di fronte alla tendenza a oggettificare le persone e le esperienze che facciamo in viaggio (perché no, non esiste posto al mondo che si meriti di essere ridotto a un “la gente lì è così accogliente e ospitale!”).
Mini glossario della comunicazione inclusiva
Volonturismo
Questa parola è una crasi tra le parole ‘volontariato’ e ‘turismo’.
Il termine nasce in inglese, volunturism, a indicare la pratica di svolgere attività di volontariato secondo le necessità della comunità del posto in cui si è in vacanza.
La sfumatura turistica lo distingue quindi dal volontariato internazionale.
Come spiega il team di Go Overseas, una delle più grandi community in cui trovare progetti di volontariato o studio all’estero:
I viaggi per volonturismo sono solitamente di breve durata e prevedono attività di volontariato unite a escursioni programmate e a momenti di svago. Inoltre, si concentrano più sull'esperienza dei partecipanti che sull'impatto effettivo che lasciano sulle comunità del posto.
Inoltre, sono spesso organizzati da aziende private. Le agenzie che organizzano pacchetti di volonturismo sono numerose e basta una veloce ricerca sul web per capirne la portata. Di solito, chi fa volonturismo compra un pacchetto che include il viaggio, l’accompagnamento sul posto, le attività di volontariato, i costi di permanenza, le escursioni del tempo libero e una quota per (si spera) la comunità locale.
Il volontariato internazionale, invece, è più spesso gestito da organizzazioni non profit e di solito richiede determinate competenze da mettere al servizio della comunità locale. Non è richiesta una quota di partecipazione vera e propria, ma piuttosto una donazione al progetto o un impegno a fare da cassa di risonanza all’organizzazione che si occupa dei progetti.
Di solito il volonturismo è supportato dall’idea della crescita personale, dalla ricerca di un legame con persone dal vissuto molto lontano dal nostro e dal desiderio di fare la differenza. Per questo, una delle destinazioni più comuni del volonturismo sono gli orfanotrofi.
Secondo una ricerca pre-pandemia del Centre for the Promotion of Imports from developing countries, fino al 2020 erano circa 10 milioni le persone volontarie che partivano per realizzare progetti di turismo SAVE (acronimo di “scientific, academic, volunteer, education”). Un trend che includeva esborsi annuali tra i 930 milioni e 1,45 miliardi di euro. Booking.com definì il volontariato la tendenza di viaggio numero uno per il 2019.
Uno dei primi articoli che lessi sul volonturismo è The problem with little white girls (and boys): why I stopped being a volontourist, che Pippa Biddle scrisse nel 2014.
In quel periodo stavo per partire da sola in Argentina; dopo un paio di mesi di ricerche autonome — volevo evitare a tutti i costi le agenzie di volonturismo — avevo preso contatti con una ONG locale che si occupava delle comunità nelle periferie marginalizzate di Buenos Aires. Visto che parlavo bene spagnolo e avevo già esperienze di volontariato alle spalle, mi avevano confermato che avrei potuto collaborare con una scuola. Una volta sul posto avrei incontrato il personale della scuola e organizzato tutto nel dettaglio.
Sì, anche io ero pronta a diventare volontaria per un mese. Ero convinta di poterlo fare in modo responsabile.
Si può fare volonturismo in maniera responsabile?
Questo articolo di Save The Children, per quanto datato, dà consigli ancora validi.
Ero spinta dalle migliori intenzioni: stavo per affrontare il mio primo viaggio intercontinentale in solitaria e volevo che fosse significativo, prezioso, solidale. Conoscevo già il business del volonturismo e non avevo intenzione di farne parte. Avevo letto tutto il leggibile su come evitarne gli effetti negativi sulle comunità locali. Non ci sarei cascata, volevo davvero fare la differenza.
E invece, quando arrivai alla Casa del Voluntario, in una delle strade più trafficate di Buenos Aires, ci misi poco a capire di aver preso un granchio.
L’idea che mi ero fatta dal sito web e dalle email scambiate con l’organizzazione era crollata di fronte all’amara realizzazione: ero finita in un ostello per spring-breaker statunitensi con ambizioni di volontariato.
I progetti con le comunità marginalizzate esistevano, sì. Ma l’appoggio da parte dell’organizzazione era molto scarso. Non era prevista una formazione in loco, neppure un’infarinatura sul contesto in cui avrei dovuto fare volontariato — un quartiere a 2 ore di mezzi pubblici dall’ostello e con gravi problemi di sicurezza. Le mie compagne di squadra parlavano uno spagnolo stentato e non capivo come la nostra presenza avrebbe potuto giovare alle bambine e ai bambini della scuola.
Tutto strideva. Digerito il malessere per non essere riuscita a schivare questa dinamica nefasta, lasciai l’ostell… ehm, la Casa del Voluntario e il progetto dopo due giorni, preferendo continuare a essere solo una turista.
Altre letture (e giri) che ti consiglio
Come scrivere d’Africa, scritto da Binyavanga Wainaina nel 2005 per il magazine Granta e tradotto nel 2006 da Internazionale.
Sulla giostra del turismo gira più di un miliardo di persone, di Annamaria Testa per Internazionale, 2017.
The Worst Tours: a Porto puoi fare turismo e discutere sul fenomeno della gentrificazione mentre passeggi con gente del posto, che ti spiega bene il contesto. La “gente del posto” sono tre architetti di Porto che ti portano in giro per quartieri, vicoli, angoli, piazze fuori dalle mappe solite e mescolano tutto con storia, urbanistica, politica, luoghi dimenticati e idee di una città futura.
The Voluntourist, breve documentario del 2015 che spiega bene il fenomeno del volonturismo.
Barbie Savior, che su Instagram raccontava la sua vita “in Africa” (sì, Africa il Paese, certo). È un account parodia che purtroppo non viene più aggiornato ma sembra scritto da reali travel blogger e influencer che fanno bella mostra del loro white savior complex, il complesso del salvatore bianco:
Oh mio Dio. Avete mai sentito parlare del complesso del salvatore bianco? Che cosa orribile. Durante il mio soggiorno in Africa mi sono trovata faccia a faccia con tante ingiustizie, ma questa è di gran lunga la più sconvolgente. Oltre a salvare l'Africa, diventerò sostenitrice della fine di questo cosiddetto complesso del salvatore bianco.
— Barbie Savior, 7 settembre 2018.
Hai mai riflettuto sul tuo modo di viaggiare e sull’idea che hai di te mentre lo fai (se lo fai)?
Per questo lunedì ho finito. Grazie per essere qui 💙
Se vuoi lasciarmi un'opinione, una richiesta di contenuti futuri o di collaborazione, scrivimi senza problemi. Ti basta rispondere a questa email.
A presto,
Alice
P.S. Questa è la prima newsletter che invio con un nuovo fornitore: ho lasciato Mailchimp per Substack. Se noti problemi di visualizzazione o hai consigli su come migliorare la leggibilità dell’email, fammelo sapere!
#31 Ma tu viaggi o fai turismo?
Ciao Alice, bell'articolo, complimenti. Esistono movimenti che da decenni (o anche da secoli :) affrontano il problema. Uno di questo è il movimento dell'International Voluntary Service, creato nel 1920 (188 organizzazioni in tutto il mondo). Da anni affrontiamo le questioni della decolonizzazione e altri argomenti citati nel tuo articolo, con seminari, gruppi di lavoro e formazioni specifiche. La "core activity" del movimento sono i workcamps (campi di volontariato), che cercano di proporre un formato educativo, inclusivo, di crescita ed incontro interculturale accessibile a tutti (anche se il tema è tuttora controverso, perchè non tutti possono permettersi di viaggiare). In Europa le reti IVS più attive sono SCI (https://sci.ngo/) e Alliance (http://www.alliance-network.eu/). Saluti, Mauro
La questione turista vs viaggiatorə mi ricorda molto quella dell'immigrato vs expat, termine usato erroneamente da decenni. Bellissimo articolo!