#101 Cosa caspita sto guardando?
Di affanni comunicativi e senso di inutilità che si ritrovano in una parola: ipernormalizzazione.
L’ultimo numero di Ojalá si chiedeva perché l’arte che ritrae gli ambienti domestici diventa “intima”, soprattutto quando le artiste sono donne.
In questo episodio:
Un gesto di noia che diventa tassello di dissociazione: volevo solo vedere le storie Instagram di una scrittrice che apprezzo.
L’affanno tra scrolling senza senso, crisi del linguaggio e della comprensione.
Il senso di inutilità che monta e io che provo a chiudere tutto sapendo che non può funzionare così.
Ipernormalizzazione, la mia parola della settimana.
Altre letture sul senso di smarrimento contemporaneo, Ursula K. Le Guin, rabbia queer.
Con lo scorso episodio di Ojalá ho toccato i 100 numeri: quanto cammino abbiamo fatto in questi anni! Non ho preparato nessun contenuto speciale per celebrare questo bel numero tondo, ma oggi è l’ultimo giorno per sostenere Ojalá con un abbonamento annuale scontato.
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E ora, iniziamo ✨
Sono a lavoro. Sto scrivendo da un’ora, ho finito il caffè lungo, il mio cervello chiede una pausa. La mano destra si sposta da sola verso la sua estensione, il cellulare.
Apro Instagram. Sulla barra in alto brillano in fucsia le storie di una scrittrice che stimo. Vado subito a vederle e nell’ordine scorro:
un video di due gatti che si coccolano
un altro con tre gatti che guardano curiosi l’obiettivo
una video notizia di Al Jazeera, Israele ha iniziato a bombardare l’Iran
un video di una testata indipendente con scene di risaputo orrore da Gaza
un post con un cucciolo di cane dagli occhi azzurri
un altro con un cane che indossa un cappellino rosa
un video di un account giornalistico che denuncia i crimini del governo israeliano
un testo in cui la scrittrice spiega che sta cercando di hackerare l’algoritmo di Instagram: alterna contenuti carini e pucciosi alle notizie su cui vorrebbe tenere alta l’attenzione dei suoi follower
una schermata con i numeri di visualizzazione delle sue storie: ci mostra come i contenuti con cani e gatti aiutino a mantenere alto l’engagement e a ingannare l’algoritmo di Instagram, che così evita di oscurare subito i suoi post di denuncia sociale
Io, con il mio pollice in modalità tap, ho visto tutto questo in meno di un minuto. Ho scorso le immagini per inerzia, non ho aperto nemmeno uno dei video che la scrittrice ha condiviso; eppure quando inizia a parlare di algoritmo e numeri mi scuoto, mi chiedo ma cosa caspita sto guardando? e perché?
Mi si gonfia dentro un senso di inutilità che conosco bene, non è certo la prima volta che mi succede mentre scrollo una piattaforma social.
Sto guardando i contenuti di una persona che stimo. Anche lei sembra affannarsi a comunicare qualcosa — la disperazione dell’orrore a cui assistiamo in presa diretta, ogni volta che apriamo un social — già raccontato e condiviso da decine di altri canali. Su una piattaforma che, notoriamente, mal sopporta i contenuti di denuncia sociale, soprattutto quando si parla di certa geopolitica, soprattutto quando si nomina la parola genocidio.
Si affanna, lei come altre persone con grandi seguiti, a trovare un modo per non essere penalizzata dalla piattaforma. Per mantenere alta la visibilità, come se da quel numero lì — le visualizzazioni — potesse davvero dipendere qualcosa.
E intanto i contenuti si piegano, si distorcono in una pila grottesca: cani e gattini tra le macerie di Gaza. Missili sui tetti di Teheran e Tel Aviv. Peluche in technicolor. E io, spettatrice, dall’altra parte dello schermo che scrollo.
So già tutto. La rabbia verso le piattaforme che usiamo per comunicare — a volte anche per promuovere il nostro lavoro — e che ci tengono ostaggio con meccanismi che poco possiamo controllare.
So già tutto. Sono inorridita da mesi, eppure nei momenti di noia continuo a tornare su Instagram per cercare la mia fugace dose di dopamina.
Il senso di inutilità scoppia. Chiudo tutto, infastidita. So che tornerò presto.
So che, tra qualche giorno, quando starò meglio, probabilmente farò lo stesso: pubblicherò i miei contenuti dalla solita normalità, alternandoli alla denuncia sociale.
Ipernormalizzazione
Un tempo ci mettevamo in pausa. Oggi calendarizziamo contenuti nel mezzo dell’apocalisse: Beth Booker, giornalista e pubblicitaria statunitense, titola così uno dei numeri recenti della sua newsletter.
L’ho letta con un moto di immedesimazione. Descrive bene lo stato mentale in cui mi ritrovo più volte al giorno, mentre la vita lavorativa nel mio studio va avanti tra presentazioni e slide, traduzioni e scrittura di articoli per i miei clienti:
È impossibile aprire il telefono senza imbattersi per caso in una nuova crisi umanitaria prima ancora di aver bevuto il caffè.
Eppure i contenuti devono continuare. Modifichiamo leggermente la caption qui, ammorbidiamo un po' la CTA là. Magari aggiungiamo una frase su “quanto sia pesante questo momento storico” e premiamo su pubblica, come se non avessimo appena letto tre titoli distopici di fila.
Perché il calendario è già pieno, l'algoritmo affamato e il capitalismo dice “niente giorni di riposo”.
[…]
Non è solo roba da pubbliche relazioni. È qualcosa che conosce chiunque abbia mai cliccato “invia” nel bel mezzo di una crisi. Chi sta comunicando il suo progetto. Giornalistə. Social media manager. Creator. Ci si aspetta che siamo persone emotivamente intelligenti e algoritmicamente ottimizzate. Che prestiamo cura e attenzione senza mai stonare. Che suoniamo umani, ma ci comportiamo da brand.
E nel frattempo? Siamo solo persone che attraversano traumi globali sovrapposti, mentre inviano email che iniziano con “Spero che tu stia bene”: come se non stessimo dissociando attivamente, con lo sguardo perso nel vuoto di caselle di posta che non si svuotano mai.
Negli ultimi giorni ho imparato che questo stato mentale, comune a molte persone intorno a me — sia offine che online — si può chiamare ipernormalizzazione.
Ringrazio Silvana Porcu per avermi consigliato questo articolo di The Guardian che ne parla: Systems are crumbling — but daily life continues. The dissonance is real. Ne traduco e parafraso una parte:
Il termine ipernormalizzazione è stato coniato per la prima volta nel 2005 dal ricercatore Alexei Yurchak per descrivere l’esperienza della popolazione civile nella Russia sovietica. Indica la vita in una società in cui stanno accadendo due cose fondamentali.
La prima: le persone vedono chiaramente che i sistemi di governo e le istituzioni sono in crisi.
La seconda: per ragioni che vanno dalla mancanza di una leadership efficace all’incapacità di immaginare come rompere lo status quo, le persone continuano a vivere come se tutto fosse normale, nonostante la disfunzione sistemica.
Il tutto è condito da dosi massicce di paura, angoscia, negazione e dissociazione.
L’articolo, per fortuna, non si limita a descrivere un problema esistenziale e politico, ma apre uno spazio di respiro e di possibilità.
Il primo gesto liberatorio è proprio nominare il disorientamento. Sapere che questo senso di apatia e frustrazione ha una radice sistemica, non solo individuale, permette di sottrarsi alla colpa e al senso di fallimento personale.
Da qui nasce una speranza reattiva e collettiva: ci sono persone che parlano, agiscono, sperimentano forme di solidarietà dal basso, anche piccole ma incisive. Che si alleano, creano spazi alternativi, si prendono cura le une delle altre al di fuori delle logiche performative e dei circuiti del potere.
C’è chi resiste con le parole e chi si mette in rete, dentro pratiche comunitarie che non cambiano tutto, ma rompono l’inerzia, creano fratture, aprono possibilità.
Io, intanto, provo a scrollarmi di dosso l’ipernormalizzazione con alcune strategie. Provo a usare meno i social. Leggo ancora più del solito; meno saggi e più romanzi, ho notato. Scrivo dove capita, perché così i pensieri si accumulano meno. Chiudo questa newsletter e vado a Barcellona a manifestare, di nuovo, per gridare PROU (basta).
Ci provo, insomma, praticando il tempo dell’intimare:
Letture e visioni per continuare a esplorare
My brain finally broke: in questo breve saggio per il New Yorker, Jia Tolentino descrive la crisi del linguaggio e della comprensione in un mondo in cui le immagini si fanno sfumate, la realtà sfugge, la lingua perde senso. Un’esperienza simile a quella che descrivo all’inizio di questa newsletter: la tensione tra consapevolezza e incapacità di intervenire. Grazie a Luca Porru per avermelo consigliato.
L’articolo del Guardian a un certo punto cita il famoso discorso di Ursula K. Le Guin del 2014, quando le viene conferito il National Book Award. Viviamo nel capitalismo, il cui potere sembra ineluttabile, ma abbiamo ancora le parole, le storie e chi le sa raccontare: anche quelli sono atti di resistenza. Io, nel dubbio, mi sono rivista quei sei minuti di video (con trascrizione).
YouTube Ads: ora anche per genocidi, l’ultimo episodio di
di Ella Marciello. La propaganda che si traveste da spot, le piattaforme che diventano casse di risonanza per crimini di guerra trasformati in storytelling.Grazie a
di Mutande del Lunedì mi sono fatta un giro al Museum of Corporate Pride, archivio Instagram con decine di casi di rainbow washing.A volte mi aiuta cercare nel passato parole di lotta e rabbia che hanno cambiato davvero molte cose: sto leggendo e sottolineando tantissimo The Queer Nation Manifesto del 1990, tradotto in italiano da Francesco Brusa ed Emma Catherine Gainsforth per Asterisco Edizioni.
Come suonerebbe questo episodio di Ojalá?
Tutta la musica che consiglio su Ojalá atterra su questa playlist collaborativa su Spotify. Che canzone assoceresti a questo episodio? Scrivimelo via email o nei commenti di Substack. 🎶
Per questa settimana chiudo qui.
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Sono Alice Orrù, sarda emigrata a Barcellona nel 2012.
Fiera della sua residenza, la mia newsletter contiene incursioni di vita catalana e tanta, tanta salsa brava. 🍟
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Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Alice
La canzone di questo numero di Ojalá, per me, non può che essere Bulls on Parade dei Rage Against the Machine. Che a pensarci bene è forse un ottimo sunto del mood degli ultimi anni
La canzone che mi risuona in testa mentre leggo questo numero è "Casa mia" di Ghali.
"Siamo tutti zombie col telefono in mano...", "Ma come fate a dire che qui è tutto normale?! Per tracciare un confine con linee immaginarie bombardate un ospedale... Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane, non c'è mai pace!".