#66 Sei un typo?
"La linea che separa il sentirsi vistə dal sentirsi invisibili è rossa e sottile", dice una campagna che chiama i giganti del tech a fare più attenzione ai nomi delle persone.
Sotto casa dei miei genitori, al paesello in Sardegna, c’è un negozio di abbigliamento. Lo gestisce Lina, una donna cinese sui quaranta, che vive in un appartamento sulla nostra strada da una decina d’anni. Ha un marito e due figli adolescenti, vengono dalla provincia dello Zhejiang. Lina è un’imprenditrice in gambissima, segue ogni cliente con consigli mirati e un fare schietto, ha una parlantina che passa svelta dall’italiano a espressioni in sardo campidanese.
Lina però non si chiama davvero così. Quello è il nome che ha scelto per la sua vita in Italia. Breve, facile da pronunciare e ricordare. Una prassi molto comune tra le persone cinesi (ma non solo) che si trasferiscono in Europa.
La prima volta che ho sentito parlare bene di questo tema è stato qualche anno fa, grazie a un bellissimo podcast di Stefano Vergine: Cinesi d’Italia, su Storytel.
Nominare è un atto politico
C’è un articolo di El Diario che parla delle ragioni dietro questa scelta del cambio nome; si intitola “Il tuo nome è Zhihan (陈之涵) ma tutti ti chiamano Celia: perché le persone immigrate cinesi adottano un nome occidentale?” (in spagnolo).
Ne traduco qualche passaggio:
C'è una differenza tra l'adozione di un nome occidentale e il nome in pinyin, la trascrizione fonetica dei caratteri cinesi. Quest'ultima è obbligatoria per tutti i cittadini che richiedono il passaporto per uscire dalla Cina.
Per questo, un cittadino cinese in Spagna potrebbe avere due nomi: il nome originale, con la sua traslitterazione in alfabeto latino, e un eventuale nome occidentale.«Le ragioni che spingono a cambiare il nome cinese in uno spagnolo hanno solitamente a che fare con la ricerca di una fonetica comprensibile e facile da pronunciare per le persone ispanofone», afferma Gladys Nieto, docente di Studi sull'Asia Orientale presso l'Università Autonoma di Madrid. […]
Per Paula Guerra, presidente di SOS Racismo, le ragioni vanno oltre la fonetica e sono dovute alla logica della sopravvivenza di fronte al razzismo strutturale. «Dobbiamo chiederci perché alcune persone sentano il bisogno di cambiare il proprio nome per avere una vita senza problemi in un altro Paese», afferma. Chi lo fa arriva alla conclusione che è più facile evitare di essere discriminati nelle situazioni quotidiane.
Avere un nome straniero può rendere difficile trovare un lavoro o affittare un appartamento e spesso è oggetto di scherno.
«Possiamo trovare difficile pronunciare un nome spagnolo, eppure lo facciamo sempre, non ci viene in mente di cambiarlo», dice.
L’articolo de El Diario cita anche un saggio del 2016 di H. Samy Alim, John R. Rickford e Arnetha F. Ball che si chiama Raciolinguistics: How Language Shapes Our Ideas About Race, che approfondisce l'aspetto politico della denominazione.
La storia ci propone tantissimi esempi in cui cambiare il nome implica una dominazione simbolica. Negli anni '40, l'impero giapponese promosse il Sōshi-kaimei, una politica di pressione sulle persone coreane affinché adottassero nomi giapponesi. Negli Stati Uniti, le popolazioni indigene, migranti e afrodiscendenti sono state costrette a rinominarsi secondo gli standard statunitensi. Negli anni Sessanta, le persone associate al movimento Black Power hanno rivendicato la loro identità razziale liberandosi dei nomi imposti ai loro antenati in un sistema coloniale.
Raciolinguistics contiene anche una serie di consigli su come rispettare le persone che non hanno nomi comuni nel loro Paese di residenza:
Evitare di usare il nome insolito in modo peggiorativo oppure modificarlo per ridicolizzarlo.
Chiedere sempre alle persone come vogliono essere chiamate.
Non rifiutarsi mai di imparare un nome, per quanto difficile sia la sua pronuncia.
Non sono un typo
Il tema di questo numero di Ojalá è stato ispirato da una campagna che ho intercettato qualche giorno fa e che si chiama I Am Not a Typo.
Non sono un typo, un errore di battitura.
I Am Not a Typo è un collettivo che si occupa del legame tra identità e tecnologia, sfidando i giganti del tech ad aggiornare i loro dizionari.
Hai presente quando digiti una parola straniera o con un errore di battitura sul tuo telefono e l’autocorrettore lo corregge “di testa sua”?
O quando scrivi la stessa parola su un Word o su Gmail e il dizionario integrato te lo sottolinea per avvisarti che stai facendo un errore?
A molte persone questo capita quando digitano il loro nome.
I Am Not a Typo parte dal Regno Unito e sfida i giganti del tech a cambiare i dizionari dei nomi propri, in modo che tutti i nomi siano trattati allo stesso modo dalle tecnologie che usiamo ogni giorno.
Traduco una testimonianze dal loro sito web:
Mi chiamo Dhruti Shah.
Non Drutee, Dirty e nemmeno Dorito. Eppure sono tutte parole che hanno sostituito il mio nome, spesso a causa di una correzione automatica o di un messaggio affrettato... Il mio nome di battesimo non è nemmeno così lungo, solo sei caratteri, ma quando viene segnalato come un errore o deformato e considerato una parola sconosciuta, è come dire che non è solo il tuo nome a essere sbagliato, ma pure tu.— Dhruti Shah, Giornalista
I bias moderni sono facili da trovare: sono sottolineati in rosso
Dice uno dei copy della campagna I Am Not a Typo. Ti ricorda qualcosa? 🤯
A me sì. Per esempio tutte le volte che il sostantivo al femminile di un titolo professionale mi veniva segnalato come errore da Google Docs.
Ora non mi capita più, lo prendo come un successo.
Ne avevo parlato anche qui:
Quali sono le parole-bias che ancora ti vengono segnalate in rosso o autocorrette dai tuoi dispositivi?
Se ti va di dirmelo lascia un commento su Substack o rispondi a questa email.
Ti piace scoprire campagne di marketing, iniziative e letture originali che parlano di inclusione e accessibilità digitale? Ojalá è nata per questo:
Una citazione da Scrivi e lascia vivere
Sul sito di I Am Not a Typo c’è anche una lettera aperta rivolta alle grandi aziende del tech che inizia così:
Cari giganti del tech,
Abbiamo bisogno che cambiate, partite dall'aggiornamento dei vostri dizionari dei nomi.
Controllate il controllo ortografico.
Correggete la correzione automatica.I nostri nomi sono tra le parole più importanti della nostra vita, parte della nostra identità.
Eppure abbiamo notato che, mentre tutti i nomi sono creati uguali, la tecnologia che modella il nostro mondo non li tratta così.
Alcuni nomi sono più uguali di altri.
Mi ha ricordato un passaggio di Scrivi e lascia vivere in cui mi sfogo un po’ contro questi stessi giganti che, lo vogliamo o meno, governano la nostra quotidianità onlife.
I problemi del tech non si limitano ai bias di genere
Sappiamo che certe tecnologie di riconoscimento vocale sono meno accurate quando ascoltano ciò che dicono persone che non sono uomini e non sono bianche.
È successo qualcosa di simile con alcune tecnologie di riconoscimento facciale che non contemplavano i volti di persone nere, o con i sensori di macchine fotografiche digitali che identificavano come “occhi chiusi” gli occhi delle persone di origine asiatica.
Ne parla nel dettaglio anche l’informatica e attivista digitale Joy Buolamwini nel documentario Coded Bias (2020).
Questo accade perché tantissimi dei prodotti digitali che usiamo ogni giorno sono disegnati da persone che lavorano in grandi aziende tech e che pensano agli utenti finali a loro immagine e somiglianza: in maggioranza uomini bianchi, senza disabilità, che vivono in Paesi del nord globale, usano dispositivi di determinate marche e di fasce di prezzo alte. Statisticamente, però, le persone che usano quei prodotti digitali non assomigliano a coloro che li hanno disegnati e hanno caratteristiche molto più diversificate (pensa solo alla diffusione globale di prodotti Google o di social come Facebook, Twitter, Instagram, eccetera).
Se cerchi altri esempi di quanto il settore tech si regga sui pregiudizi di una fetta privilegiata della popolazione mondiale, ne trovi un’infinità in un ottimo saggio: Technically Wrong, di Sara Wachter-Boettcher (2017).
— pagina 72
Se la citazione ti ha incuriosito, sappi che Scrivi e lascia vivere. Manuale pratico di scrittura inclusiva e accessibile esiste anche in versione ebook.
Altre cose che ti consiglio
Sapevi che è in corso la raccolta firme per il referendum sulla cittadinanza? La proposta è di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, sarebbe automaticamente trasmessa ai propri figli e alle proprie figlie minorenni. Una modifica importantissima per tutte le persone di origine straniera che sono nate, cresciute e residenti in Italia.
Manca poco, la raccolta firme termina il 30 settembre: si firma qui, in due minuti, con lo SPID.Dal 2020 LinkedIn ha inserito la possibilità di aggiungere, a fianco al proprio nome, anche un file audio con la sua pronuncia. Io lo trovo utilissimo proprio per ovviare ai problemi di cui ho parlato sopra. Hai già usato questa funzionalità sul tuo profilo LinkedIn?
In vista del Festival DiParola, di cui parlo meglio tra qualche riga,
ha pubblicato un mio vademecum per scrivere testi chiari, inclusivi e accessibili. Nel loro blog trovi anche altri due bei pezzi: l’intervista a Valentina Di Michele, ideatrice del festival, e un editoriale di Elena Panciera sul linguaggio come strumento di democrazia.
Ci vediamo in giro?
Martedì 24 settembre alle 18:00 intervisto in diretta streaming
, psicolinguista e PhD in psicologia e scienze cognitive: insieme parleremo del suo libro "Neurodivergente. Capire e coltivare la diversità dei cervelli umani", Edizioni Tlon.
La presentazione è online e gratuita, riservata a chi ha già fatto l’iscrizione alla seconda edizione del Festival DiParola, l’evento democratico e aperto a chiunque voglia conversare di linguaggi chiari e accessibili.
Se hai già riservato il tuo posto al festival 2024 riceverai via email il link per collegarti. Se invece non l'hai fatto, puoi rimediare iscrivendoti al Festival DiParola qui, gratis o con donazione.Mercoledì 25 settembre alle ore 15:00 partecipo a uno dei webinar della SEOZoom Academy, mi intervista Elisa Contessotto. Parleremo di come approcciare in modo più ampio la scrittura inclusiva, di come considerare l’accessibilità web anche quando si scrive e dei benefici che ne conseguono per la SEO del tuo sito web.
Il 3 e 4 ottobre partecipo al Festival DiParola in presenza a L’Aquila.
Sono parte della squadra organizzatrice insieme a Valentina Di Michele, Giorgia Aurelio, Andrea Fiacchi, Elena Panciera, Letizia Sechi, Roberta Zantedeschi e a tante altre persone che hanno deciso di collaborare alla realizzazione dell’evento.Il 5 ottobre sono a Bologna per il convegno dei 20 anni di TradInfo, Associazione Traduttori e Interpreti. Parlerò di come la scrittura inclusiva e accessibile sia anche strumento di democratizzazione del web. I biglietti sono esauriti, ma se ci sarai passa a salutarmi!
Il 9 ottobre alle 20:00 tengo un intervento online durante il WordPress Accessibility Day: darò un po’ di consigli pratici a chi crea contenuti per rendere più accessibili i testi, le immagini e i video che carichiamo sul web (in inglese).
Per questa settimana chiudo qui.
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Sono Alice Orrù, sarda emigrata a Barcellona nel 2012.
Fiera della sua residenza, la mia newsletter contiene incursioni di vita catalana e tanta, tanta salsa brava. 🍟
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Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Alice
Questo tuo articolo mi ha toccato molto da vicino, non sai quante volte mi hanno storpiato il nome a scuola e quanto mi faceva male! Rocío è diventato "frocio", "Rocio" (pronunciato come si dice in italiano, senza nemmeno chiedermi come pronunciarlo), mocio vileda ecc ecc. C'è molta cattiveria nei confronti delle persone straniere, e questo è dimostrato già dal fatto che ti viene negato anche il tuo stesso nome. Non tuttə sono così, per fortuna, ci sono anche persone che vogliono sapere da dove deriva il mio nome e come pronunciarlo. Forse il nome straniero è un po' come un termometro che ti permette di capire chi hai davanti prima ancora che ti parli, no? Un abbraccio!
Se mi succede a me in Spagna, figurati cosa può succedere con un nome più complicato.
Nel mio caso visto che non sento discriminazioni razziste, solo sciatteria, la strategia ogni volta che qualcuno mi scrive Hola Ana è rispondere modificando il suo nome. Hola Pilastro, Hola Albert, Hola Lucy.
La scusa anche qui è l'auto correttore, in questo caso perché il nome è troppo simile a quello spagnolo, ma io insisto sempre: soy Anna con dos n, Ana es otro nombre, no soy yo. Non lo capiscono ma sorridono.
Se è così fastidioso per me, in cui appunto sono molto meno i punti di attrito per questa ragione, non posso immaginare cosa voglia dire per una persona razzializzata.