#90 Non è un segreto, ma una questione pubblica
Perché non è mai "solo una mestruazione".

In questo episodio:
Brevissimo memo sulla biblioteca digitale di Ojalá che ha aperto porte e scaffali 📚
Una serie di cose importanti che ho imparato sul mio ciclo quando ero già abbastanza adulta.
Lavorare in una clinica internazionale di riproduzione assistita ha segnato il mio esordio nel mondo della comunicazione accessibile.
Parlarne tra donne*: l’intersezione tra sessismo e gap di genere in ambito medico.
La campagna britannica “Just a period” e lo stigma sulla salute mestruale (e non solo) che passa dalle parole che scegliamo…
…ma anche dai meccanismi algoritmici delle piattaforme tech, come mostra The Digital Gag.
Altre letture sul gap di genere nella ricerca oncologica by
, la campagna di salute mestruale della Generalitat catalana, il manifesto contro la povertà mestruale di WeWorld.
Mercoledì scorso ho aperto porte e scaffali della biblioteca digitale di Ojalá. 🤩
In questo post trovi tutte le informazioni su come funziona e come ricevere l’accesso:
Hai già deciso? Allora avanti tutta:
Non conoscevo il mio ciclo
Da donna cis millennial, ho imparato quello che mi serviva sapere davvero sulle mestruazioni solo a trent’anni, quando ho iniziato a lavorare come traduttrice e assistente alle pazienti internazionali di una clinica di riproduzione assistita di Barcellona.
Non sto parlando delle nozioni di base, quelle che da pre-adolescente avevo assimilato tra scuola, casa, amicizie e Cioè (quello c’era e spesso ci facevamo bastare, ahimè, ai tempi del mio menarca).
Non mi riferisco nemmeno alle nozioni più avanzate che mi sono servite crescendo, quando ho iniziato ad avere una vita sessuale, a valutare se prendere o meno anticoncezionali, a riflettere sul mio (non) desiderio di una gravidanza.
Il lavoro in clinica e la conseguente necessità di studiare più approfonditamente la salute riproduttiva avevano acceso una serie di lampadine che continuavano a brillare anche fuori dall’ufficio. Quelle lampadine puntavano la luce sul ciclo come strumento di autoconoscenza invece che misterioso inconveniente definito dallo sguardo esterno.
Ne L'urlo e il furore, William Faulkner definiva la mestruazione come «il delicato equilibrio di periodica impurezza sospeso tra due lune.» L’obiettivo di questo libro è dimostrare che non è né delicata, né in equilibrio, né periodica, né impura, né sospesa tra due lune.
— La mitad que sangra, María Zuil Navarro e Antonio Villareal, Libros del K.O., pagina 16. Traduzione mia.
Tra le cose importanti che mi sarebbe servito sapere prima dei trent’anni c’erano queste:
Il ciclo non è solo mestruazione-ovulazione-fase premestruale; le fasi sono quattro (mestruale, follicolare, ovulatoria, luteale) e tutte hanno un impatto sul mio corpo e sul mio benessere.
La fase luteale è quella per me più complicata: è il periodo in cui tendo a incupirmi, sento più forte l’ansia e osservo la mia quotidianità con uno sguardo più severo e giudicante.
Posso vivere il ciclo, non subirlo; posso cambiare la mia routine, scegliere di mangiare, muovermi e riposare in modo diverso a seconda della fase in cui mi trovo.
La mia salute mestruale è collegata a quella intestinale, immunitaria e mentale.
Dolore intenso, cicli irregolari, spotting e forti sbalzi d’umore non sono sintomi da “sopportare”, ma segnali da approfondire.
Approfondire, non etichettare bruscamente come fece quella ginecologa che, di fronte alle mie malconce analisi e ascoltando la mia preoccupazione per i forti sbalzi d’umore, pronunciò la sentenza «A breve entrerà in menopausa, inizi a prendere questi estrogeni», e mi lasciò lì, secca e senza parole con una scatolina di estrogeni in mano. Avevo 38 anni e no, non stavo davvero entrando in menopausa. Avevo però tutte le risorse necessarie per decidere che non avrei più messo piede in quello studio.Il mio ciclo e i suoi effetti non sono solo un meccanismo biologico ma anche un linguaggio del corpo: imparare a tradurlo mi ha aiutata a conoscermi meglio, è stato un grande strumento di autodeterminazione.
Parlarne tra donne*
[L’asterisco dopo la parola donne in questo caso mi serve per ricordare l’allargamento di significato dalle donne cis a tutte le persone trans o gender non conforming che si riconoscono nell’esperienza della mestruazione e della ricerca di una gravidanza].
Tra le mie mansioni in clinica, c’era quella di comunicare allə pazienti via email e telefono le istruzioni del personale medico e spiegare loro il funzionamento dei trattamenti di riproduzione assistita che avrebbero in parte seguito a distanza.
Questo significava, spesso, partire dalle basi: come funziona il ciclo mestruale, qual è il primo giorno di ciclo, quali dolori e segnali del corpo ascoltare e riferire.
Significava adattare il messaggio alla loro lingua e alla loro cultura.
Quelle conversazioni in quattro lingue su ciclo mestruale e salute riproduttiva hanno segnato il mio esordio nel mondo della comunicazione accessibile.
Parlare e scrivere chiaro era alla base di ogni scambio con lə pazienti, ne andava del loro trattamento riproduttivo e della mia professionalità (nonché pace mentale, che in un lavoro così perdevo assiduamente).
Come descrivere con parole chiare, precise e rassicuranti il procedimento di prelievo degli ovociti?
Come spiego a una donna che non ha mai guardato la sua vulva come e dove si inserisce un ovulo vaginale?
Quante parole descrittive si possono usare per definire il colore, la consistenza e la portata del flusso mestruale nel “primo giorno di ciclo”?
Quanto variano, queste parole, a seconda della lingua di riferimento, del background della persona che la parla, del suo bagaglio di consapevolezza sul suo stesso corpo?
Erano domande e riflessioni che mi avevano anche catapultata nel terreno brullo e sconfinato in cui si intersecano sessismo e gap di genere in ambito medico.
Mi sono ritrovata a parlare con donne che non conoscevano l’anatomia di base del loro corpo.
Che non avevano parole per parlare della loro intimità sessuale con altre donne, neppure se mediche.
Che venivano a sapere, una volta arrivate in clinica, di avere malattie o condizioni che in teoria sarebbe stato semplice diagnosticare con una buona visita ginecologica.
Che avevano vissuto per anni dietro lo stigma di non essere fertili e scoprivano, una volta arrivate in clinica, che la persona della coppia portatrice di infertilità era in realtà il compagno uomo (il quale no, mai nella vita aveva pensato di doversi testare a riguardo).
C’erano anche le donne che non parlavano ma che passavano la cornetta al marito, tramite unico e centralizzatore delle comunicazioni sulla salute della moglie.
Per tutte loro, e per me, parlare semplice era vitale.
Le parole mestruanti
Ho molti aneddoti di quel periodo di lavoro in clinica, ma il fatto più semplice che mi va di condividere ora è la consapevolezza che in quasi ogni lingua esiste un eufemismo o parola in codice per sostituire la parola “mestruazione”.
L’esistenza di questi giri di parole dimostra quanto ancora le persone di tutto il mondo siano generalmente a disagio nel parlare di mestruazioni.
Nel 2016, una ricerca dell’azienda che produce l’app Clue ha coinvolto 90.000 persone di 190 Paesi del mondo e raccolto più di 5.000 eufemismi con cui le persone dicono “ho le mestruazioni”.
Ho le mie cose, sono indisposta, sono in quei giorni del mese, sono arrivate le cugine, è arrivato il marchese… anche in italiano abbiamo decine di modi per dirlo senza pronunciare la fatidica parola.
Gli eufemismi, oltre a perpetuare lo stigma per cui mestruare è qualcosa di sporco o impuro, hanno anche l’effetto collaterale di minimizzare i sintomi che potrebbero segnalare problemi da approfondire.
“Sono solo mestruazioni, è normale che facciano male”, ci hanno detto per troppi anni. Peccato che no, non sempre è così normale.
Mi è piaciuto molto come affronta il tema la campagna “Just a period” dell’associazione britannica Wellbeing of Women, che parte dai risultati di un sondaggio del 2024: le donne che soffrono per mestruazioni dolorose e con flussi pesanti hanno aspettato in media 22 mesi dall’inizio dei sintomi per chiedere aiuto. E anche quando lo hanno fatto, due terzi di loro non ha ricevuto diagnosi, trattamento o follow-up, perché “sono solo mestruazioni”.
Il video della campagna raccoglie le esperienze di cinque donne con mestruazioni debilitanti i cui sintomi, inizialmente, sono stati minimizzati:
La campagna non si conclude qui: nel sito dell’associazione si può fare un test di autovalutazione dei propri sintomi mestruali. Le risposte date nel test vengono riassunte in una lettera da presentare al personale medico:
Lo trovo un bel sistema per un’intermediazione efficace tra medicə e paziente, uno strumento per non perdere le parole né minimizzarle nel confronto.
Se lo stigma viene anche dal tech
A proposito di stigmi lessicali, sono usciti di recente i risultati del report 2025 del Center for Intimacy Justice (CIJ), organizzazione no-profit statunitense che si occupa di promuovere l'equità nell'accesso alla salute e al benessere sessuale, con particolare attenzione ai diritti delle donne e delle persone con identità di genere marginalizzate.
Il report si chiama The Digital Gag e ha analizzato la soppressione sistematica a livello internazionale di informazioni sulla salute delle donne* da parte di quattro grandi colossi tech: TikTok, Google, Amazon e Meta.
Ti invito a leggere il report che puoi scaricare dal sito del CIJ ma, forse lo immagini già, i risultati sono preoccupanti: i dati dimostrano quanto sia severo il filtro algoritmico che grava sui contenuti e sulle campagne pubblicitarie di organizzazioni, brand e creator che si occupano di salute sessuale, benessere intimo e piacere, soprattutto quando le destinatarie sono donne, persone trans e non binarie.
Quando creator e brand sono costretti ad autocensurare il loro linguaggio per evitare la rimozione dei contenuti, si incoraggia una cultura della vergogna intorno al linguaggio dell'educazione sessuale e si producono contenuti educativi imprecisi e meno accurati.
— Sarah Brown, ex dipendente di Lorals, traduzione mia.
A livello europeo, qualche settimana fa sei startup del settore FemTech (tecnologie dedicate alla salute femminile) hanno presentato un reclamo formale alla Commissione europea: sotto l’egida della campagna CensHERship, hanno richiesto un’indagine sulle politiche di Meta, Google, Amazon e LinkedIn, accusate di oscurare, limitare o rimuovere in modo sproporzionato i contenuti relativi alla salute femminile rispetto a quelli rivolti agli uomini.
Se frequenti i social probabilmente sai già che i bias di genere nella moderazione dei contenuti che riguardano i corpi femminili e non conformi agli standard mainstream sono un annoso problema. Le denunce tramite le campagne che ti ho menzionato rendono ancora più urgente investigare sul tema.
Però devo essere sincera: leggendo il report del Center for Intimacy Justice mi sono rimaste delle domande aperte. Alcuni degli esempi citati mi sembrano infatti un po’ fragili e facilmente contestabili da chi si intende di strategie di advertising sui social.
La riflessione che mi sento di fare, senza alcun dubbio, è questa: la censura algoritmica – così come viene descritta nel report del Center for Intimacy Justice – non è solo una questione di contenuti e parole bannate.
È un meccanismo che colpisce in modo diverso a seconda del potere economico e dell’accesso da parte dei brand/organizzazioni ai canali di mediazione delle piattaforme tech. Le aziende con budget pubblicitari elevati, come i brand più mainstream che vendono prodotti per la salute e il benessere sessuale, possono permettersi team legali, PR, agenzie media e contatti interni alle piattaforme. Possono chiedere revisioni manuali, gestire account pubblicitari “verificati”, ricevere eccezioni alle regole standard grazie ai loro profumati budget da investire in ads.
Le piccole realtà femministe, queer, comunitarie o autogestite restano invece invisibilizzate o bannate, senza strumenti per appellarsi o recuperare i loro contenuti quando vengono rimossi. E anche questo è un problema di mancata visibilità che è importante considerare.
Da leggere e scoprire ✨
Il tema della newsletter di oggi è molto in linea con Non ci sono studi in merito, l’ultimo episodio di
, la newsletter di Paola Chiara Masuzzo:Oggi ho una domanda specifica per l’oncologo, voglio sapere se il mio ciclo mestruale ritornerà, ora che le cure sono finite e che non faccio più l’iniezione mensile per bloccarlo. Non glielo chiedo in questi termini, perché lo so che non è un mago (ma dio quanto vorrei che lo fosse, quanto vorrei mi leggesse le carte), quindi gli chiedo - dottore, cosa dicono i dati? cosa dice la ricerca? che probabilità ci sono?
Prende carta e penna e inizia ad appuntare protocolli di terapia e cure, e ci appiccica sopra numeri e statistiche. Nonostante il cervello annebbiato lo seguo per bene, è tutto chiaro - mi accorgo però che quello che mi illustra non è esattamente il piano terapeutico che ho seguito io. Vorrei dati più precisi, se possibile.Non ci sono studi in merito, mi risponde lui.
Dall’anno scorso, in Catalogna è partita la campagna La meva regla, les meves regles (“le mie mestruazioni, le mie regole”) che invita a riprendersi il potere sul proprio corpo, sulle proprie esperienze e sulle proprie decisioni di salute mestruale. Tramite un codice QR ogni persona che mestrua può richiedere gratuitamente in farmaci un prodotto mestruale riutilizzabile (coppetta, assorbenti lavabili o mutande mestruali).
Tra le realtà che più si spendono per la giustizia mestruale in Italia c’è WeWorld, no-profit che fra i tanti suoi progetti ha anche stilato un manifesto in sei punti contro la povertà mestruale (link diretto al pdf).
(Aggiungo dopo la prima pubblicazione) Del libro che cito in apertura, La mitad que sangra, ha scritto approfonditamente lo scorso anno
nel numero Come e perché abbiamo ignorato per secoli i dati sul ciclo mestruale della newsletter .
Ti piace scoprire campagne di marketing, iniziative e letture originali che parlano di nuove parole, inclusione e accessibilità digitale? Ojalá è nata per questo:
Come suonerebbe questo episodio di Ojalá?
Tutta la musica che consiglio su Ojalá atterra su questa playlist collaborativa su Spotify. Che canzone assoceresti a questo episodio? Scrivimelo via email o nei commenti di Substack. 🎶
Per questa settimana chiudo qui.
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Rispondi a questa email o scrivimi su ojala [at] aliceorru.me 📧
Sono Alice Orrù, sarda emigrata a Barcellona nel 2012.
Fiera della sua residenza, la mia newsletter contiene incursioni di vita catalana e tanta, tanta salsa brava. 🍟
Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Alice
Grazie Alice per questa puntata così esaustiva. Da madre poi è proprio utile. Parlo di mestruazioni con mia figlia da sempre e spero di aver fatto dei piccoli passi per non farle provare vergogna quando arriverà il suo momento, ma questa newsletter mi sarà davvero d'aiuto.Grazie!
Anche per me il momento delle prime mestruazioni era stato traumatico e purtroppo mia mamma in questo non era stata per niente d'aiuto. Adesso le (mie) mestruazioni sono una parte normale della vita della nostra famiglia e spero che quando arriverà il momento di mia figlia potrà essere per lei un passaggio in cui si sentirà rispettata e sostenuta (di sicuro non andrò in giro a urlare ai quattro venti che "è diventata signorinaaaa"). Riguardo al nome, anch'io faccio fatica perché "mestruazioni" mi suona freddo e non mio. Qui negli USA alcune persone usano "moon times", non come eufemismo ma per rifarsi più esplicitamente al mese lunare.