#95 La luce che immaginiamo
Sulle immagini e le parole che si scelgono per raccontare un evento insolito, collettivo e grave come il gran apagón spagnolo.
L’ultimo numero di Ojalá aveva ancora la testa e le parole in Sardegna, ma l’idillio è durato poco: la luce è mancata poche ore dopo la sua pubblicazione.

In questo episodio:
Apagón, la parola della settimana.
Quello che immaginiamo e quello che non: l’ineffabile sensazione che da fuori non si capisse del tutto quello che stava succedendo.
Lo sguardo esterno che proietta l’idillio (anche questa settimana): di romanticizzazione sui social e narrazioni parziali.
All we imagine as light, un film dove non c’è un blackout ma la luce è comunque protagonista.
Altre letture che intrecciano l’apagón con il gran tema dell’accessibilità.
Apagón, da queste parti, è stata la parola della settimana.
In questo dizionario etimologico, leggo che:
La parola significa "interruzione di elettricità" e deriva dal suffisso -ón (azione) applicato al verbo apagar, che a sua volta proviene dal latino pacare, cioè “pacificare”, “calmare”.
Sono le 13:54 di lunedì 28 aprile quando mi decido a mandare un messaggio sul gruppo WhatsApp che condivido con la mia famiglia in Sardegna: «C'è un blackout in molte zone di Spagna, non funzionano i cellulari.»
Che il blackout sta coinvolgendo diverse parti della penisola iberica l’ho scoperto grazie alla schermata che un’amica ha mandato su un altro gruppo WhatsApp: è riuscita a interrogare Google e darci la notizia che il mio cellulare non riusciva già più a mostrarmi.
Preferisco avvisare i miei: è già passata un’ora e mezza da che l’elettricità è andata via, i cellulari funzionano solo per brevi lampi e proprio l’assenza di linea telefonica — non solo di internet, proprio di segnale — mi suona foriera di qualcosa di grande ma inarrivabile, al momento.
Non sappiamo perché sta succedendo e non riesco a informarmi: in casa non abbiamo nessuno strumento analogico che permetta contatti con l’esterno, che in un caso così sarebbe solo uno, la radio.
Le prime notizie che riceviamo, confuse e piene di ipotesi, vengono dalla gente che come noi è scesa in strada. Carrer Nou, la via principale del paese in cui vivo, è affollata come fosse Ferragosto.
Vaghiamo tra il bar centrale, la stazione e la spiaggia sperando di captare un perché e un quando. Dalla radio che qualcuno ha ascoltato, in ogni caso, pare non siano arrivate risposte: la Spagna è isolata, non ne conosciamo il motivo e non si sa quando tornerà la luce.
C’è un che di perturbante nella consapevolezza di non poter raggiungere il mondo dentro lo schermo, la nostra vita onlife, ma nemmeno i contatti a una linea telefonica di distanza.
È anche bizzarro rendersi conto così — in una macchia di consapevolezza che si espande dalla sfera micro del frigorifero di casa passando per la stazione dei treni di paese fino alla rete idrica regionale e nazionale — quanta parte della nostra vita dipenda dall’elettricità e la dia per assodata.
Apagón, quello che immaginiamo e quello che non
Mi sorprenderà, nel corso della giornata e soprattutto a sera inoltrata — quando alle 21:43 tornerà la luce e il web irromperà di nuovo nel mio dispositivo con il suo arretrato di notizie e messaggi rimasti incastrati chissà dove — constatare quanto le persone care fuori dalla Spagna non si siano scomposte né preoccupate.
Nel mio caso solo due persone, non a caso entrambe sul pezzo quando si parla di notizie in presa diretta, si sono proattivamente messe in contatto nel primo pomeriggio per sapere se andasse tutto bene.
Le altre mi diranno poi, chi la sera chi il giorno dopo, che non avevano proprio afferrato la portata di quello che stava succedendo e quindi non si sono preoccupate più di tanto.
Spero di riuscire a spiegarmi bene: non riporto questo aneddoto per “rimproverare” disattenzione o disinteresse. Il fatto che abbiano vissuto qualcosa di simile anche altre amiche italiane in Spagna, ci ha fatto realizzare che da fuori non fosse facile percepire l’impatto di un apagón diurno, generalizzato e “senza causa” di questo tipo, né il senso di incertezza che ha portato con sé.
Lo sguardo esterno che proietta l’idillio
(Curiosamente posso usare lo stesso sottotitolo che ho scelto anche per l’episodio di Ojalá della scorsa settimana.)
Il giorno dopo l’apagón, con il Paese che si risvegliava in un progressivo ritorno alla vita con l’elettricità e alla conta di danni e aneddoti, ho aperto Instagram e ho avuto l’impressione di essermi persa un momento storico denso di significato, festa e connessione umana.
Da ogni dove spuntavano video che ritraevano le città immerse in un gioioso rituale collettivo di disconnessione.
Che meraviglia, il mondo senza cellulare!
Ecco il vero senso della vita, la connessione in presenza con le altre persone!
È proprio vero che la tecnologia ci imbruttisce, avevamo bisogno di questo apagón per ricordarlo!
«In Spagna il blackout ha spento tutto tranne le persone», dice e testimonia con numerosi video questo post in italiano su Instagram, uno dei tanti ad aver usato l’hashtag #apagon: «in tantissimi sono usciti per strada e sono tornati a divertirsi e socializzare».
Di post così è pieno l’Instagram, la mattina del 29 aprile, e i video che girano raccontano la stessa storia: piazze gremite, bambini che giocano per strada, persone che cantano e ballano, giocano a scacchi, siedono oziose intorno a una radiolina, leggono un libro per strada.
Tutte scene di romantica disconnessione registrate con gli stessi cellulari che il giorno dopo ci permetteranno di presumere sui social che noi c’eravamo, che abbiamo capito il senso di questa pausa forzata da tutto, che abbiamo imparato 3, ma che dico 5, anzi, abbondiamo!, 10 lezioni da questo apagón, e ora ce le sorbiamo in uno scrolling infinito di post e retorica romantico-luddista.
A dirla tutta, ogni prospettiva sull’apagón trova il suo spazio di riflessione e condivisione. Al di là della dipendenza tecnologica, c’è da cogliere l'opportunità di analizzare anche gli altri fattori che hanno generato un inaspettato senso di liberazione (privilegio, se servisse ricordarlo, vissuto solo da una parte del Paese): l'improvvisa sospensione delle implacabili dinamiche capitalistiche di produzione ed efficienza; l'abbandono, seppur temporaneo, del bisogno di tenere tutto sotto controllo; una tregua dalle incessanti richieste di prestazione sociale; una percezione del tempo finalmente svincolata dal ritmo frenetico di notifiche, programmi, appuntamenti e scadenze; il raro permesso collettivo di scomparire per un giorno, di esistere senza obbligo di reperibilità.
Tutto vero, tutto significativo, tutto parziale.
Arriveranno più lentamente le narrazioni altre, le immagini e le storie di chi la disconnessione se l’è mangiata con pane e ansia: chi ci ha messo ore per tornare a prendere la prole a scuola, chi ha dormito in stazioni o palestre dentro i sacchi a pelo della Croce Rossa, chi è rimasta bloccata dentro un treno in mezzo alla campagna ed è riuscita a rifocillarsi grazie all’aiuto dei lavoratori dei campi circostanti.
A me, per esempio sono piaciuti molto i frammenti di storie ed emozioni che raccontano queste immagini del fotografo Emiliano Morenatti:
📺 All we imagine as light
Il titolo di questo episodio di Ojalá viene da un doppio salto traduttivo: ho visto il film All we imagine as light, della regista indiana Payal Kapadia, che in spagnolo è intitolato La luz que imaginamos, “la luce che immaginiamo”.
Le protagoniste della storia sono Prabha e Anu, infermiere nella stessa clinica e coinquiline, e Parvathy, collega delle due e vedova, che decide di tornare al paese di origine perché la speculazione edilizia l’ha estromessa dal suo appartamento.
Tra le protagoniste c’è anche Mumbai, città che nella prima parte del film è immersa nella luce azzurra e umida del monsone. Durante le piogge monsoniche, racconta la regista in questa bella intervista per Interview Magazine, Mumbai diventa azzurra perché tutto viene coperto da teloni di plastica blu.
Ti consiglio di vederlo non solo perché è una storia sfaccettata e profonda di amicizia femminile, ma anche perché ci saranno un sacco di cose che ti sfuggono.
È la sensazione più piacevole che ho avuto durante la visione: quella di assistere alla vita di persone in una zona del mondo che non conosco per nulla, in un mix di lingue locali per me inintelleggibili. Eppure, grazie a quella magia dell’arte di raccontare storie, c’è un filo narrativo che puoi raccogliere e sentire familiare.
Nell’intervista che ho citato, la regista Payal Kapadia rivela:
In questo film ci sono molti messaggi nascosti che solo le persone indiane capiranno, e altri ancora che solo le donne indiane capiranno. Non li posso spiegare, sono lì. Per fortuna, la gente li sta notando.
Non io, non da questa parte del mondo. Accettare l’idea che posso godermi una storia senza capire tutto è liberatorio; mi lascia in quel territorio di incertezza e consapevolezza del fatto che il mio sguardo europeo, abituato a spiegarsi tutto, non è il centro del mondo.
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Curiosità da scoprire
Mentre la Spagna riscopriva il potere dell’informazione via radio, le persone sorde della penisola hanno lamentato la grave mancanza di accessibilità in situazioni di emergenza come l’apagón.
L’emergenza apagón ha in qualche modo riportato in alto nella coda di notizie le zone della Spagna in cui l’elettricità è ancora un lusso. A Cañada Real (poco fuori Madrid) più di 4.500 persone, tra cui 1.800 bambini, vivono con interruzioni di corrente giornaliere da ottobre 2020. Succede anche nella zona nord di Granada e negli insediamenti di lavoratori agricoli ad Almeria e Huelva (dove manca anche l'acqua potabile).
Le storie che scova Roberta Cavaglià e poi racconta su
: Un mese senza elettricità racconta il lungo apagón del 1919 a Barcellona, durante lo sciopero che portò la Spagna a essere il primo Paese europeo con la giornata lavorativa di 8 ore.
Come suonerebbe questo episodio di Ojalá?
La canzone che ho ascoltato più volte questa settimana è Yo no necesito de mucho della cantante messicana Laura Itandehui.
Tutta la musica che consiglio su Ojalá atterra su questa playlist collaborativa su Spotify. Che canzone assoceresti a questo episodio? Scrivimelo via email o nei commenti di Substack. 🎶
Per questa settimana chiudo qui.
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Sono Alice Orrù, sarda emigrata a Barcellona nel 2012.
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Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Alice
Ciao Alice, bella questa lettura del apagón. Io vivo a Madrid, e per me è stato un giorno quasi normale, per fortuna. Tra l'idillio e la disperazione resta la consapevolezza di essere totalmente dipendenti dall'elettricità per qualsiasi cosa, la sensazione strana di essere al centro di un evento ma di saperne poco o niente e la frustrazione di non poter comunicare con le persone care. Grazie ancora!