#99 Parole impronunciabili
La lettura come posto sicuro dove dissociarmi in santa pace, e un film per riflettere sulle parole che un tempo sono state impronunciabili. E che a volte, purtroppo, lo sono ancora.
L’ultimo numero di Ojalá veniva dal futuro perché ho già votato (per posta) al referendum dell’8-9 giugno: sabato o domenica ci vai anche tu?
In questo episodio:
Da bambina usavo i libri per dissociarmi dal mondo circostante. Ora lo faccio anche con i festival letterari, i gruppi di lettura, le biblioteche.
Un incontro che ho fatto durante la Fira Literal a Barcellona: la casa editrice Altramuz.
Un consiglio di visione arrivato dalle fondatrici di Altramuz: il film The children’s hour, con Audrey Hepburn e Shirley MacLaine. Era proprio bello come dicevano.
Le parole che mancano in The children’s hour perché non si potevano pronunciare.
Altre letture che ti consiglio: Chispas, il club del libro iberico; la newsletter di Diletta Huyskes; un post recente di Carolina Capria. E la prima campagna Pride 2025 che mi ha fatto commuovere.
(La foto della copertina su Substack è di Katrin Hauf per Unsplash.)
A inizio anno, era l’8 gennaio, ho condiviso questo pensiero nelle note di Substack:
Da poco ho letto un tweet o una nota Substack, non ricordo più, che descriveva la lettura ossessiva nel periodo infantile come un modo di dissociarsi dal mondo circostante.
Mi ha colpita perché sono stata una bambina che ha spesso prediletto la lettura ad altri tipi di giochi, sia fuori che dentro casa.
(Ero l’amica che inviti a casa a giocare e ti fa perdere un sacco di tempo perché prima vuole vedere che libri hai, magari sfogliarli, magari sedersi nella tua cameretta a leggerli. L’anima della festa, insomma.)
Leggere, scoprire storie, girare pagine, viaggiare in posti che non vedrò mai, riconoscermi nei drammi o felicità altrui, trovarci l’ispirazione per un cambiamento: come potrei vivere senza?, ho pensato crescendo.
Da adulta leggo ancora con lo stesso trasporto, con la stessa famelica speranza di trovare risposte e finestre da aprire su vite già vissute o scritte. Lo faccio anche con la cosciente volontà di dissociarmi da un mondo che a seconda dei giorni risulta essere davvero troppo.
La condivisione mi è tornata in mente questa domenica mattina, mentre affino i pensieri per il numero di Ojalá che nella mia testa sarà breve e leggero, visto che arriverà in un giorno di festa in Italia (un ciao solidale a tutte le persone che invece mi leggono da altri Paesi 💛).
Continuo a essere sintonizzata sul sentimento di quel post di inizio gennaio. Sto leggendo moltissimo, anche se in modo discontinuo e affamato. Credo di avere otto o nove libri in lettura, al momento. Mi rifugio nell’inizio di pensieri e nuove storie, per poi vederle crescere con lentezza e rafforzare così il senso di vissuto collettivo di cui sento il bisogno in questo periodo.
Di questa ricerca di collettività fanno parte alcune delle scelte degli ultimi mesi:
Ho svestito certi ruoli lavorativi ormai stretti e posizionato la tastiera anche sulla scrittura di altro: un saggio che sto traducendo e vorrei portare in Italia; un reportage da Città del Messico; un pitch su un approfondimento che mi sta molto a cuore in tema di sessualità femminile.
Sono tornata dopo molti anni al Salone del Libro, perché avevo bisogno di cambiare aria e discorsi, nonché sfogliare libri che non trovo qui in Catalogna.
Ho passato una giornata intera alla Fira Literal di Barcellona, dedicata ai “libri e alle idee radicali” (radicale nell’accezione di cui avevo parlato qui), per ascoltare Lola Olufemi, conoscere nuove case editrici indipendenti e scoprire progetti bellissimi, come il libro Intraducibles: relatos de barcelones_s que nacieron fuera de España del collettivo migrante En Palabras.

Proprio alla Fira Literal ho conosciuto Sandra Carmona e Tamara Gámez, fondatrici di Altramuz, piccola casa editrice con anima sociale che vuole «cambiare l'assunto per cui le persone diverse sono una “minoranza”».
Da loro ho comprato due libri:
Il primo è la traduzione di uno dei pochissimi testi (pochi davvero, mi risulta che ne esista solo un altro) a raccontare cosa significa essere una donna gitana e lesbica. L’ha scritto Vera Kurtić, sociologa, scrittrice e attivista romaní femminista originaria di Niš, in Serbia. È una figura di riferimento nel panorama dell'attivismo intersezionale nell’Europa sud-orientale. L’ho preso per continuare l’approfondimento sulla realtà romaní che ho in parte raccontato nell’episodio 93 di Ojalá:
Il secondo libro è una raccolta di brevi saggi autobiografici di persone in vista del collettivo LGBTQIA+ spagnolo, che raccontano la loro “uscita dall’armadio” in diverse epoche e contesti.
Sandra Carmona, oltretutto, è un’illustratrice che mi piace un sacco: è lei a illustrare i libri del catalogo di Altramuz, tra i quali spicca Alma, la prima protagonista gitana di un racconto per l’infanzia.
Insomma, mentre parlavo con Sandra e Tamara dell’importanza di una rappresentazione sfaccettata e plurale delle persone LGBTQIA+, siamo arrivate a condividere la nostra passione per il catalogo della piattaforma di streaming Filmin (non so più quante volte l’ho citata su Ojalá, quanto vorrei che esistesse anche in Italia!). E mi hanno fatto questa raccomandazione:
Devi vedere La calumnia. È un film degli anni ‘60, in bianco e nero, uno dei primi a parlare di omosessualità femminile: le protagoniste sono Audrey Hepburn e Shirley MacLaine. ¡Increíbles!
E così ho fatto in uno di quei pomeriggi perfetti di un sabato di inizio estate in cui mi dedico in solitudine alle cose che mi piacciono: stare sul divano, leggere, guardare film.
Quelle due
Sandra e Tamara avevano ragione. La calumnia (in italiano Quelle due) è molto bello e ho finito di vederlo soffiando lacrime su un fazzoletto, era da tanto che non piangevo così per un film (qualche mese, per i miei standard).
Il titolo originale del film è The Children's Hour, risale al 1961 ed è diretto da William Wyler; è tratto dall'opera teatrale della drammaturga Lillian Hellman.
La trama, in breve:
Due insegnanti, Karen e Martha, sono amiche da anni e ora anche socie, hanno aperto un piccolo collegio femminile. Mary, una loro studente bugiarda e vendicativa, diffonde la voce che tra le due donne ci sia una “relazione innaturale” (il termine lesbica non viene mai pronunciato, a quei tempi era una parola indecente). Questo pettegolezzo distrugge la loro reputazione, la scuola deve chiudere e le loro vite cambiano tragicamente. Ma questa bugia porta anche alla rivelazione di verità più profonde e dolorose. Le due protagoniste sono costrette a confrontarsi con una domanda che nessuno osa davvero porre: e se fosse vero?
«Ogni parola ha un nuovo significato, ora: figli, amore, amica, donna. Non esistono più parole sicure. Nemmeno matrimonio ha più lo stesso significato»
dice Karen in una scena del film, mentre affronta una dolorosa conversazione con il suo promesso sposo, il medico Joe Cardin.
Parole impronunciabili
Uno degli aspetti che più mi ha commosso della storia è proprio quella impronunciabilità delle parole. C’è la definizione di qualcosa di innaturale, un non detto che grava sulle due donne e che sfuma nei contorni dello scandalo senza mai essere descritto.
C’è solo un momento in cui l’immaginario si delinea con una scena concreta, ma inventata: è quando Mary, incalzata dalla nonna e poi da Karen e Martha, insinua di averle viste baciarsi una sera, spiandole dal buco della serratura.
L'assenza di parole esplicite amplifica la tensione e il dramma, lasciando che sia l'immaginazione dei co-protagonisti, e di noi che guardiamo, a colmare i vuoti.
Questa scelta non è solo narrativa, ma anche culturale: il film esce quando era ancora in vigore il Codice Hays, le linee guida molto rigide e moraliste — definite dalle stesse major cinematografiche — su ciò che poteva essere mostrato o detto nei film. L’omosessualità non era di certo tra i temi ammessi.
Nonostante questo clima censorio, Martha (Shirley MacLaine), è il primo personaggio saffico in un film hollywoodiano mainstream a dichiarare apertamente, anche se con estrema vergogna e giri di parole, il suo amore per un’altra donna:

Mi ha incuriosita molto il fatto che il regista Wyler abbia voluto a tutti i costi girare questo film e onorare l’opera drammaturgica di Lilian Hellman: ci aveva infatti già provato 25 anni prima, nel 1936, con il film Those Three. Quella prima versione, però, venne talmente censurata che si convertì nel racconto di un triangolo amoroso che sconvolge una coppia eterosessuale — niente che non ci sia poi stato propinato anche nei decenni a venire in infinite salse.
E toh, ho appena scoperto che The children’s hour si può vedere su YouTube, quindi Filmin in questo caso non serve! Lo vedrai? L’hai già visto? Vogliamo parlarne?
Nota: Per questi suoi primati, The children’s hour entra a pieno titolo nei film che consiglierò nelle mie formazioni sui linguaggi queer nei media, ma non nel modo in cui si potrebbe immaginare. Il perché è spiegato in questo numero di Ojalá:
Letture per continuare a esplorare
La settimana scorsa ho partecipato al secondo incontro di Chispas, il club del libro iberico organizzato da . Abbiamo parlato di Le cose di prima, dello scrittore portoghese Bruno Vieira Amaral: libro che in realtà non ho fatto in tempo a leggere, ma che gira intorno a domande per me fondanti. Cosa succede nelle vite di chi fugge dal posto in cui è nato? E in quelle di chi resta? E in quelle di chi torna? Il mese prossimo si legge La famiglia, della spagnola Sara Mesa.
Tra tutti gli articoli e le newsletter che ho letto in questi giorni sul tema della violenza di genere, dopo gli ultimi casi italiani di femminicidio, mi hanno fatto pensare molto le parole di : Uccisa da un uomo (non da un algoritmo). Leggila, ne vale la pena.
Ti consiglio anche questo carosello Instagram dell’autrice Carolina Capria: Non ho l’età. Una raccolta di canzoni e film italiani che mostrano come lo squilibrio di età — e quindi di potere — nelle relazioni tra ragazze adolescenti e uomini più grandi sia stato a lungo raccontato come qualcosa di accettabile, persino desiderabile.
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Intanto, mentre sui social iniziano a impazzare i post che ricordano l’inizio del mese del Pride, questa campagna da Oslo ricorda che un simbolo può fare davvero tanto per far sentire le persone sicure o a proprio agio:
Un giorno magari proverò a scriverne, ma dopo tanti anni a Barcellona — che si definisce proprio “città LGBTI” — ora viaggiare in posti dove non si vede nemmeno una bandiera LGBTQIA+ mi fa davvero un effetto straniante.
Come suonerebbe questo episodio di Ojalá?
Tutta la musica che consiglio su Ojalá atterra su questa playlist collaborativa su Spotify. Che canzone assoceresti a questo episodio? Scrivimelo via email o nei commenti di Substack. 🎶
Per questa settimana chiudo qui.
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Sono Alice Orrù, sarda emigrata a Barcellona nel 2012.
Fiera della sua residenza, la mia newsletter contiene incursioni di vita catalana e tanta, tanta salsa brava. 🍟
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Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Alice
Di "The children's hour" ne avevo già sentito parlare (sono super fan di Audrey Hepburn), lo recupererò senz'altro! Che film coraggioso per i tempi, davvero. Condivido con te la riflessione sulla lettura, è l'unica attività che giustifica e nobilita il dissociarsi dal mondo, cosa che ultimamente almeno per me è sempre più necessario.
Ho tantissime cose da dire su questa newsletter e la prima è che ho pensato che fosse arrivata di domenica invece che di lunedì (e invece ma è lunedì ma sembra festa, perché sono in Italia :)).
La seconda è che che Intraducibles mi sembra un progetto bellissimo e lo vorrei leggere anche io. Idem per Dzuvljarke.
Idem per The Children's Hour.
La terza è grazie per aver parlato di Chispas.
La quarta che è la bambina dissociata sono io (ed è una parola che spesso usiamo in senso negativo ma che possiamo rivalutare, come radicale). Avrei altro ma mi fermo qui :)