#56 Parliamo la stessa lingua?
Mi interrogo su quali possibilità abbiamo per colmare i gap di linguaggio, di idee o di sogni.
Quasi tre anni fa scrivevo un episodio di Ojalá dedicato alla fatica di uscire dalla comfort zone. Uscirne, a volte, continua a pesarmi, e non solo sul lavoro. Ma ho notato che quando seleziono le occasioni in cui farlo, poi sono contenta.
È successo anche il mese scorso, quando ho tenuto una lezione sulla comunicazione inclusiva al Master in Studi Strategici e Sicurezza Internazionale organizzato dalla Marina Militare Italiana e dalla Ca' Foscari Challenge School, a Venezia.
Come potrà immaginare chi mi conosce di persona o segue questa newsletter dagli inizi, non l’ho presa con leggerezza.
Parlare di fronte a un pubblico formato da personale militare, per me, è forse una delle rappresentazioni più vivide di uscita dalla comfort zone. Mi sono confrontata con persone distanti da me per formazione e punti di vista sul mondo, ed è andata bene.
Non è andata “liscia”, ma è andata bene, perché quello che ne è venuto fuori è stato uno scambio di visioni nuove.
Affrontare i temi della comunicazione inclusiva è facile quando si hanno di fronte persone che, bene o male, la pensano come te o che ti assomigliano. Forse si collocano anche nella tua stessa posizione della ruota del privilegio e del potere:
[Prenditi il tempo di osservare la ruota e capire dove ti posizioneresti tu, viste le tue caratteristiche personali. Quante delle tue risposte si posizionano verso il centro della ruota, quindi vicine a una posizione di potere? E quante invece rimangono verso l’esterno, nella fascia della marginalità?]
Di fronte al pubblico del Master — composto per l’80% da uomini cis — io ero una docente donna cis, con la pelle bianca, senza disabilità visibili (ecco il mio bagaglio di privilegi evidenti) che parlava di femminismo, machismo, sistemi di potere e linguaggio sessista.
Se io sono arrivata in classe con il mio bagaglio di parole e codici nuovi, anche loro ne avevano uno, e imponente, da farmi conoscere.
Non so nulla di sicurezza e strategia militare; non so cosa significhi studiare in una scuola militare; non conosco, se non per esperienza indiretta e superficiale, gli ostacoli di chi sceglie questa carriera. Tanto più se donna, e magari anche madre.
Insomma, io e il mio pubblico avevamo alcuni importanti gap di conoscenza e di linguaggio condiviso da colmare. Nel giro di due ore abbiamo cercato di avvicinarci e trovare un terreno comune.
Ci siamo riusciti, credo, ma non dimenticherò la sensazione di sentire risposte che non avevo mai ricevuto prima agli esempi portati a lezione. Alcune delle mie sicurezze sull’immediatezza di certi messaggi si sono scontrate con una realtà che non avevo tenuto in conto e un mondo che non conoscevo. È stata un’esperienza possente, che mi ha insegnato tanto.
Come si colma un gap di linguaggio condiviso?
La fatica di colmare un gap di linguaggio o di valori condivisi è enorme.
La sento quando faccio esperienze di insegnamento come quella che ho appena descritto.
Ma anche quando mi ritrovo a spiegare cosa significa essere donna in determinati contesti lavorativi.
Quando parlo di emigrazione dalla Sardegna.
Quando provo a descrivere la pesantezza del carico mentale a chi non è stato educato ad agire dietro la spinta di un “per chi” (come diceva Michela Murgia nella prefazione di Bastava chiedere! di Emma Clit).
È una fatica che ho sentito spesso anche in viaggio, forse la più comune tra le esperienze di gap linguistico.
La ricordo bene nella forma delle conversazioni che passavano per lo schermo del telefono, quando – durante un soggiorno di due settimane a Pechino, qualche anno fa – avevo enormi difficoltà a trovare qualcuno che mi desse informazioni in inglese.
Di queste complicazioni linguistiche, e degli incontri meravigliosi che a volte riescono magicamente a generare, parla spesso anche Eleonora Sacco, creatrice di Pain de Route.
Se non faccio male i conti, ho conosciuto Eleonora nove (aiut’) anni fa, quando entrambe contribuivamo alla comunità Facebook di Viaggio da Sola Perché. Ai tempi quello era il più grande gruppo per donne che amano viaggiare da sole. Begli anni, bellissimo progetto. 💙
Ora Eleonora è diventata una grandissima esperta di viaggi in zone del mondo poco conosciute in Italia, soprattutto nei territori dell’ex URSS. Ogni anno viaggia e fa viaggiare le persone in questo modo qui. Ha anche scritto un piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici che ti consiglio caldamente di leggere se ti affascinano i crogioli linguistici e i viaggi in autostop.
Qualche giorno fa, arrivata da poco in Iraq per un nuovo viaggio, ha scritto questo messaggio nel canale Telegram in cui invia aggiornamenti sui suoi progetti:
Ai tempi avevo scritto un articolo sul vecchio blog Altervista sui cibi più facili e efficaci da cucinare agli ospiti Couchsurfing in viaggio, tenendo conto della reperibilità degli ingredienti e della buona resa data la scarsa qualità degli stessi.
Le paste più facili da fare che in tanti anni di nottate sui divani del mondo avevamo individuato erano pasta al pomodoro, tonno e piselli; pasta alla norma, un po' più sbatti ma la melanzana fritta è buona a qualsiasi latitudine, anche nell'Artico russo; o la carbonara, ma non nei paesi musulmani. Una volta avevo preparato anche una crema al mascarpone per il panettone, in Polonia, e in Armenia un tiramisù con la smetana al posto del mascarpone: era venuto davvero buono e un italiano lì con me a Erevan non si era accorto della differenza :)Cucinare per gli ospiti è sempre un esperimento culturale grandioso, che ridimensiona il nostro ego culinario italiano e le smanie di colonialismo alimentare.
Spesso, i piatti italiani all'estero nel mondo non occidentale non piacciono molto: per chi mangia speziato il nostro cibo sa di poco; la pasta sembra sempre cruda; la pizza margherita troppo poco farcita. All'estero piace con una montagna di condimenti random sopra, quindi la margherita sembra incompleta, e così via.
Ma al di là di tutto, cucinare per gli altri è un qualcosa che unisce e che porta in casa di una famiglia irachena di un'area rurale un'esperienza assolutamente nuova e altrimenti impossibile da provare. È come uno spettacolo privato, una finestra di evasione, un biglietto aereo per un luogo esotico difficile da immaginare.
Questo messaggio mi ha fatto brillare il cuore, non solo per la bellezza dell’incontro gastronomico-culturale che evoca. Ma anche perché scardina un punto di vista a cui ci attacchiamo con visceralità e con la convinzione di essere nel giusto: il cibo italiano non piace dappertutto, non è “il più buono del mondo”, come mi è capitato spesso di sentire.
Ci sono un sacco di situazioni in cui un concetto simile, dato per scontato, apre gap di comunicazione enormi, ci costringe a mettere in discussione il nostro credo, le nostre sicurezze e fonti di felicità.
Faccio un salto apparentemente pindarico, ma non lo è.
È da una settimana che penso al film Past Lives (vorrei parlarne per giorni e giorni); questo dialogo tra Nora e Arthur dice tanto dei gap di linguaggio, a volte di mondi, che si insinuano tra le persone che hanno una relazione sentimentale:
- Credo di aver paura.
- Paura di cosa?
- Sogni in una lingua che non riesco a capire. È come se ci fosse un intero mondo dentro di te dove non posso arrivare.
Letture, ascolti e visioni per approfondire
Il Governo argentino vieta l’uso del linguaggio inclusivo e tutti i riferimenti alla prospettiva di genere in ambito amministrativo. Sì, davvero. Sì, c’è da tenere le orecchie rizzate perché questi esempi rischiano di “fare giurisprudenza”. Ti traduco qualche passaggio dall’articolo che ho linkato nella prima frase:
Il governo nazionale ha annunciato oggi che saranno compiuti progressi nel divieto del linguaggio inclusivo e «di tutto ciò che riguarda la prospettiva di genere» nell'amministrazione pubblica nazionale.
Il portavoce del presidente Milei, Manuel Adorni, ha specificato che le lettere e, @ e x (ndt. desinenze “pop” usate con valenza neutra in spagnolo) non saranno più utilizzate.
Ha aggiunto anche che si dovrà «evitare l'inutile inclusione del femminile in tutti i documenti».[…]
Questa non è la prima decisione regressiva presa dal governo di Javier Milei in materia di linguaggio. La scorsa settimana, il Ministero della Difesa ha vietato l'uso di un linguaggio inclusivo nelle Forze Armate e in tutte le agenzie che fanno capo al Ministero.
Con una risoluzione, il ministro Luis Petri ha indicato che l'uso di termini come "generala", "sargenta", "soldada" o "caba" costituiscono una violazione del regolamento.
Qualcosa di simile è accaduto sul canale televisivo Diputados, che dipende dal presidente della Camera dei Deputati, Martín Menem. Uno dei primi ordini è stato quello di «non usare un linguaggio inclusivo: todxs, o "todas y todos", ma solo il maschile "todos"». Inoltre, ha vietato l'espressione "diputados y diputadas", al suo posto si può usare solo il maschile.
Questa decisione fa parte di altre battute d'arresto nell'esercizio dei diritti, come la chiusura dell'INADI (ndt. Istituto Nazionale contro la Discriminazione, la Xenofobia e il Razzismo) o del Ministero delle Donne, del Genere e della Diversità della Nazione, che il presidente Javier Milei include nella sua "battaglia culturale".
«È una battaglia culturale, una violazione dei diritti umani, un attacco diretto alle comunità LGBT e una posizione conservatrice. È inaccettabile, non si chiama battaglia culturale, è una violazione dei diritti umani», afferma Alba Rueda, attivista trans ed ex funzionaria del Ministero delle Donne.
«Che cosa significa che la lingua muta? Si possono trasformare le parole che usiamo e i modi in cui si articolano per riflettere sensibilità in evoluzione?Esistono modi più corretti di altri di parlare di certi temi? E se sì, quali sono?»
Queste sono alcune delle domande che si affacciano nei primi quattro episodi di Words, il podcast sui linguaggi inclusivi lanciato da Mediobanca e prodotto da Will Media.
Alexa Pantanella, Alessandro Lucchini, Lorenzo Gasparrini e Vera Gheno sono alcune delle persone esperte che offrono spunti di riflessione e risposte sul tema. Ringrazio Paolo Bovio per aver coinvolto anche me in questo progetto: mi sentirete parlare di linguaggio non binario diretto e indiretto e proporre esempi per fare i primi passi con la scrittura inclusiva.
Words si ascolta qui.Cinema Sabaya, diretto da Orit Fouks Rotem.
Mi è tornato in mente questo bel film israeliano, visto per caso in aereo l’anno scorso, mentre volavo dalla mia famiglia nell’altro emisfero.Nove donne, arabe ed ebree, partecipano a un laboratorio cinematografico organizzato da Rona, una regista di Tel Aviv che insegna loro a documentare la propria vita. Tutta la trama si sviluppa dentro la stanza di un edificio della città di Hadera, nel nord di Israele. Ogni filmato prodotto dalle partecipanti al laboratorio viene condiviso con le altre. La dinamica di gruppo le obbliga a mettere in discussione le loro opinioni e convinzioni, ma anche a ritrovarsi in posti dove non pensavano di avere esperienze in comune.
Per questa settimana chiudo qui.
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Ok, è davvero tutto.
Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Alice
Splendida puntata Alice. Il paragone gastronomico rende benissimo la prospettiva del riuscire a guardarsi da fuori.
E grazie per la dritta sul podcast "Words", che mi mancava.