#82 Posta aerea
Le parole per descrivere la frattura della migrazione e lo sfilacciamento ubìquo con cui imparano a convivere le persone migranti.
In questo episodio:
Ho tradotto un’elegia e ho ripensato alle parole che arrivavano per posta aerea dall’altro lato del mondo quando ero piccola.
Le parole per descrivere la frattura dell’emigrazione.
Una domanda in cerca di titoli: come si racconta l’emigrazione con le parole di chi resta?
Appartenere a più posti contemporaneamente, raccontato meravigliosamente da Elif Shafak.
Per continuare a farsi domande: dal farsi all’inglese con Sahar Delijani, la newsletter sulla letteratura migrante di Vesna Jaksic Lowe, l’Italia come paese poco accogliente in un’inchiesta di Giada Santana, una serie tv su una famiglia messicana a Los Angeles.
Tradurre l’emigrazione
Due settimane fa ho tradotto dall’inglese all’italiano l’elegia che una delle mie cugine australiane avrebbe letto durante il funerale di sua madre, mia zia, a Melbourne.
Trasporre i suoi ricordi dall’inglese all’italiano mi ha fatto ripensare a quando, negli anni ottanta e novanta, arrivavano le lettere in buste bianche dai bordi rossi e blu, il timbro “posta aerea” sul retro, un francobollo con un koala, un canguro o la Regina Elisabetta — dettagli piccoli che la mia mente bambina registrava come esclusivi, cimeli da custodire.
Leggere quelle lettere mi piaceva enormemente; ricevere parole scritte e foto da così lontano, conservarle in un cassetto e farle diventare parte della nostra narrativa familiare aveva un che di magico.
A casa nostra arrivavano pezzetti di Australia, ma gli aneddoti che le famiglie si scambiavano via posta erano semplici. Le notizie grosse si comunicavano a voce, nelle telefonate che le tariffe esorbitanti dell’epoca distanziavano di settimane, oppure di persona, quando dopo qualche anno di attesa la famiglia australiana riusciva a venire in Sardegna.
Solo il tempo e l’età adulta hanno completato il quadro di quell’emigrazione e di cosa ha significato per la nostra famiglia allargata.
Mentre traducevo l’elegia ho ripensato al fatto che chi emigra si porta dietro un pezzo di storia familiare, nostalgie che si cristallizzeranno in ricordi (come quelli che avevo effettivamente trovato nella comunità italiana a Melbourne) ma anche molti silenzi. Quelli servono a non allargare la frattura creata dall’allontanamento e intorno alla quale si è ricostruita una vita nuova.
La frattura dell’emigrazione
Proprio questo venerdì mattina, giorno in cui scrivo, è arrivata la newsletter di
che include una recensione di Chiara Puntil sul documentario Bye Bye Tiberias, di Lina Soualem, regista franco-palestinese-algerina.Il documentario ripercorre vita e carriera di Hiam Abbass, madre di Lina Soualem e attrice che potresti riconoscere subito se hai visto la serie Succession oppure il delizioso film palestinese Gaza Mon Amour. Di quest’ultimo avevo parlato nell’episodio 52 di Ojalá:
#52 Smontare le parole
«Quando ho iniziato a leggere la mia copia di Scrivi e lascia vivere mi trovavo a Mykolaïv, nel sud dell’Ucraina, per raccontare la guerra iniziata il 24 febbraio 2022», scrive Veronica Fernandes nella prefazione di Scrivi e lascia vivere.
Nella sua recensione, Chiara Puntil riprende questa frase pronunciata da Hiam Abbass in Bye Bye Tiberias:
“La migrazione crea una frattura,” riflette Hiam, “sia in chi parte, sia in chi resta, e fa male a entrambi.” “E da questa frattura sono nata io,” conclude la voce fuori campo di Lina Soualem, riassumendo in poche parole l’infelicità dolceamara che caratterizza tutte le famiglie migranti, che siano partite per scelta o costrizione, che continuino o meno a sognare un ritorno.
E da una frattura simile sono nata anche io, mi dico, solo che mi trovo dal lato di chi resta, non da quello di chi parte.
Sono emigrata anche io, è vero, ma in un paese sufficientemente vicino per far sì che le risorse a mia disposizione curassero per quanto possibile la frattura.
A gennaio ho pensato molto a come si racconta la migrazione con le parole di chi resta, e ho scritto una Nota su Substack con una richiesta:
L’esperienza della migrazione si racconta spesso con le parole di chi parte e meno – mi sembra, potrebbe essere un mio bias – con quelle di chi resta. Io stessa da anni scrivo del mio partire, della mia identità migrante che, ne sono sempre stata certa, si è nutrita dell’esperienza del seme che nel 1975 ha lasciato l’isola per crescere albero frondoso, robusto e raggiante, in Australia.
Sento il bisogno di parole che parlino di chi rimane e cresce intorno alla cicatrice dell’emigrazione di persone care. Ora non mi vengono in mente romanzi o graphic novel che possano prestarmi queste parole. Forse chi di voi sta leggendo sì?
Sono passate un paio di settimane da quella Nota e non ho ancora trovato nulla. Se ti viene in mente qualcosa puoi scrivermi via email o lasciarmi un commento, te ne sarò molto grata.
Le multiple appartenenze
Tra le scrittrici che conosco, una che sa raccontare con meraviglia di particolari la sfaccettatura della realtà migrante è Elif Shafak. Turca naturalizzata britannica, è cresciuta con sua madre e sua nonna e ha migrato tra diversi paesi europei.
«Il mio cuore dice che sono istanbulita, anche se non posso più tornarci», dice di sé. Da anni ha lasciato Istanbul; si è auto-esiliata a Londra perché le sue posizioni politiche e i suoi libri l’hanno resa persona a rischio di ritorsioni in Turchia.
Nel 2006 è stata processata e assolta per “insulto all’identità nazionale turca”: l’accusa era dovuta al fatto che uno dei personaggi del suo famoso romanzo La bastarda di Istanbul usava la parola genocidio per riferirsi al massacro della popolazione armena a opera delle autorità turche durante la prima guerra mondiale.
(Quanto tremano i governi colpevoli di fronte a questa parola, vero?)
Sei anni fa, nel 2019, un pubblico ministero turco l’ha di nuovo indagata ma per un reato diverso: l’accusa di rappresentazione romanzata della violenza sessuale e dell'abuso di minori nei suoi romanzi The Gaze (non tradotto in italiano) e Tre figlie di Eva (Rizzoli, 2016). È stata attaccata su Twitter anche per alcuni passaggi del romanzo I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo (Rizzoli, 2019), che descrivono gli ultimi momenti di vita di una sex worker.
Cosa significa appartenere a più posti contemporaneamente?
Come molte persone emigrate, inclusa la sottoscritta, Shafak conosce bene la sensazione dell’appartenenza che si moltiplica, quando ci si trasferisce in posti altri, diversi da quello di origine. Una sensazione che descrive benissimo in questo articolo pubblicato nel 2020 su Lit Hub.
Te ne traduco dei passaggi:
Istanbul mi accompagnerà ovunque, così mi sento. Non rinunciamo ai luoghi che amiamo solo perché ce ne allontaniamo fisicamente.
I paesi d’origine sono castelli di vetro. Per lasciarli bisogna rompere qualcosa: un muro, una convenzione sociale, una norma culturale, una barriera psicologica, un cuore.
Ciò che hai rotto ti perseguiterà. Essere emigrante significa portare per sempre dei frammenti di vetro nelle tasche. È facile dimenticare di averli, leggeri e minuscoli come sono, e andare avanti con la tua vita, le tue piccole ambizioni e i progetti importanti. Ma al minimo contatto le schegge ti ricorderanno la loro presenza. Ti taglieranno in profondità.
I paesi che abbiamo lasciato assomigliano a giuramenti fatti durante l’infanzia. Forse non ci crediamo o non ci pensiamo più, ma ci annodano ancora la lingua. Sono i segreti taciuti, le risposte ingoiate, le ferite non dette, le vecchie ferite riaperte, i primi amori dimenticati. Per quanto possiamo desiderare di lasciarceli alle spalle […], la verità è che loro non ci abbandoneranno mai.
Sono ombre che ci accompagnano ai quattro angoli della terra, a volte ci precedono, a volte rimangono indietro, ma non stanno mai troppo lontane. Ecco perché, anche molto tempo dopo le migrazioni e i trasferimenti, se si ascolta con attenzione si possono ancora individuare tracce dei nostri paesi di origine: sono nei nostri accenti spezzati, nei mezzi sorrisi, nei silenzi scomodi.
[…] Sono una persona dalle multiple appartenenze. […]
Le multiple appartenenze si nutrono degli incontri culturali, ma non sono appannaggio delle sole persone che viaggiano. Si tratta di un atteggiamento, di un modo di pensare, più che del numero di timbri sul passaporto. Vuol dire pensare a se stessi e ai propri simili in termini più fluidi che in rigide categorie.
💌 Per conoscere meglio Elif Shafak, puoi leggerla anche su Substack: la sua newsletter si chiama Unmapped Storylands.
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Altre curiosità da scoprire ✨
“Per chi scrivi?”. Per le persone immigrate di prima generazione che lavorano come scrittrici, questa è forse la domanda più scoraggiante, racconta su Lit Hub l’autrice iraniana Sahar Delijani.
scrive la mia newsletter preferita per scoprire racconti, romanzi e articoli sull’esperienza della migrazione: si chiama Immigrant Strong.
L’Italia è il peggior paese europeo in cui le persone immigrate con una laurea possono cercare lavoro, un pezzo di Giada Santana illustrato da Athulya Pillai per Unbias The News.
Una serie tv recente che racconta bene le tensioni identitarie e linguistiche del crescere tra più culture, è Gentefied: è la bella storia di una famiglia chicana1 a Los Angeles, dove Ana, Erik e Chris Morales cercano di salvare dalla gentrificazione la storica taquería del nonno.
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Tutta la musica che consiglio su Ojalá atterra su questa playlist collaborativa su Spotify. Che canzone assoceresti a questo episodio? Scrivimelo via email o nei commenti di Substack. 🎶
Per questa settimana chiudo qui.
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Sono Alice Orrù, sarda emigrata a Barcellona nel 2012.
Fiera della sua residenza, la mia newsletter contiene incursioni di vita catalana e tanta, tanta salsa brava. 🍟
Grazie per aver letto fino a qui. 💙
Alice
Chicano-a è l’aggettivo inglese che indica le persone di origine messicana nate o cresciute negli Stati Uniti.
I miei suoceri sono in una situazione simile a quella di Shafak: hanno lasciato Hong Kong nel 2021 sapendo che non ci sarebbero tornati mai più (a meno di un grande stravolgimento politico), perché sono stati invischiati con le proteste, schedati, etc. Mio marito non è così implicato, ma per presa di posizione e anche per cautela so che nessuno di noi metterà più piede a Hong Kong o in Cina per il foreseeable future, e la cosa ci pervade di dolore. Un momento mia suocera condivide l'ultimo gossip famigliare da HK, un momento dopo io sono in lacrime, mio marito super triste (perché non sia mai che pianga) e i bambini "perché perché ma è vero che i cinesi sono cattivi?" :( Pur con il lavoro che faccio e le certezze che ho, ci sono momenti in cui mi viene da dire "ma chi ce lo fa fare di tenere in vita lingua, tradizioni e usanze solo per soffrire così? non sarebbe meglio dimenticarsi tutto e finirla lì?"
Discutevo di questo tema con una mia amica pochi giorni fa a proposito del film "Past Lives" che dal mio punto di vista (di emigrata) parlava poco dell'aspetto delle radici e dell'emigrazione, mentre lei (da rimasta con amiche e sorelle emigrate) l'ha visto diversamente e si è rivista nel personaggio maschile. A proposito dell'aspetto agrodolce dell'emigrare, una delle mie poesie preferite è "casa mia" di Ungaretti:
Sorpresa
dopo tanto
d’un amore
Credevo di averlo sparpagliato
per il mondo
mi rivedo anche in questa illustrazione di Francesca Ballarini, una delle mie preferite: https://sinfonina.blogspot.com/2010/01/ra-dici.html (metti radici profonde e trasportabili)